Giovedì 8 giugno ci saranno le elezioni politiche nel Regno Unito. Ve lo ricordo perché di questo appuntamento elettorale in Italia si parla assai poco. Eppure di solito ci raccontano tutto delle elezioni degli altri paesi: anche perché a noi non ci fanno votare e quindi ci lasciano sfogare facendo il tifo in quelle degli altri. Da mesi sappiamo che a settembre si voterà in Germania e sulle elezioni francesi – e su Macron in particolare – ci hanno travolto di notizie: la signora Brigitte è diventata un argomento ricorrente dei giornali italiani. Della perfida Albione invece nulla o quasi; è come se ci fosse una Brexit di fatto: se loro non vogliono stare in Europa, neppure noi vogliamo loro, anzi facciamo già come se non ci fossero.
Io – ormai lo sapete – sono un malpensante e credo che non ci parlino del voto inglese di proposito, e non per una meschina rivalsa nazionalista. Non ce ne parlano per almeno due buone ragioni.
La prima è proprio perché c’è questo voto. Il 18 aprile scorso il primo ministro del Regno Unito Theresa May ha annunciato che sarebbero state indette le elezioni anticipate, perché era consapevole che il suo governo, nato dopo la sconfitta di David Cameron al referendum sulla Brexit, era indebolito dal fatto di non avere una legittimazione elettorale. Immagino che May – che non è esattamente un’educanda – voglia usare queste elezioni anche per far crescere il proprio potere all’interno del suo partito, regolando alcuni conti in sospeso, comunque è giustificabile che di fronte alla difficile trattativa con l’Unione europea serva un governo che goda di una piena legittimazione politica. E dopo meno di due mesi dall’annuncio i cittadini sono chiamati al voto.
Evidentemente è possibile. Da noi trovano sempre qualche scusa per non fare le elezioni: la finanziaria, un vertice internazionale, il giubileo, l’expo, il compleanno della nonna del presidente del consiglio; e poi arrivano le vacanze e se ne riparla dopo qualche mese. In una democrazia parlamentare votare non è un trauma; certo non si può votare ogni sei mesi, ma non è nemmeno giustificabile l’allarme con cui gli organi di informazione annunciano le elezioni. Alla notizia che forse si farà l’accordo sulla legge elettorale è cominciato il fuoco di sbarramento delle notizie catastrofiche: il crollo della borsa, le speculazioni internazionali, il terremoto! l’inondazione! le cavallette! No, votare si può, in alcuni casi si deve. E lo si può fare in poco tempo, con scarso preavviso, anche durante un vertice e anche prima della scadenza naturale della legislatura, se questo serve. E non ci sono ragioni che possano giustificare questo continuo rimandare le elezioni.
L’altro motivo per cui non parlano delle elezioni del Regno Unito è che il principale antagonista del partito conservatore è il Labour di Jeremy Corbyn. Anzi il Labour potrebbe perfino vincere: è difficile, ma non impossibile. All’annuncio del voto questa possibilità sembrava francamente remota, mentre ora i sondaggi – di cui non possiamo fidarci troppo né allora né oggi – dicono che è sempre meno improbabile. Comunque sia il Labour di Corbyn è uno dei due più grandi partiti del Regno Unito. Se si parla di quelle elezioni bisogna per forza parlare anche di Corbyn, che non è rassicurante come Schultz, che in fondo è una Merkel con la barba, o come quei socialisti la cui bandiera è così sbiadita da farci dimenticare che un tempo è stata rossa.
Non ci parlano volentieri delle elezioni inglesi, perché al di là di come andranno, Jeremy Corbyn rappresenta un passaggio storico, perché grazie a lui la sinistra europea, in uno dei paesi più grandi e importanti del nostro continente, riacquista il suo vocabolario, che avevamo perduto in questi vent’anni. Il “vecchio” Corbyn all’improvviso ci ricorda che la sinistra esiste ancora e non in qualche remoto angolo del mondo, ma a Londra, in una delle città più moderne del pianeta.

Non so quanti di voi si ricordano questo episodio. Tony Blair nel 1995, un anno dopo essere diventato leader dei laburisti, riuscì a modificare la Clausola IV dello Statuto del Labour, che era stata scritta nel 1918 e recitava:

To secure for the workers by hand or by brain the full fruits of their industry and the most equitable distribution thereof that may be possible upon the basis of the common ownership of the means of production, distribution and exchange, and the best obtainable system of popular administration and control of each industry or service.

Nello Statuto del Labour non era citata la parola socialism, una parola che faceva paura nel 1918, perché c’era stata la Rivoluzione in Russia, ma questa frase rappresenta il più avanzato programma sociale presentato in Europa nel corso del Novecento.
In tanti applaudimmo a quel cambio epocale per la sinistra europea. E quando dico noi non intendo ovviamente quelli di adesso, i “nuovi” che sarebbero venuti molto dopo – renzi ad esempio allora era solo un concorrente della Ruota della fortuna – ma noi del Pds, ci chiamavano ancora così e il nostro segretario era un tal Massimo D’Alema: non so se lo ricordate, allora era considerato uno che capiva.
Finalmente ci liberavamo di quelle parole d’ordine così datate: la proprietà comune dei mezzi di produzione. Pensavamo che quella fosse la strada giusta. E infatti nel ’96 andammo al governo con Prodi e l’Ulivo e un anno dopo Blair vinse le elezioni nel Regno Unito e diventò primo ministro, dopo i lunghi anni del thatcherismo. Ce l’avevamo fatta, eravamo diventati moderni, e così vincevamo le elezioni. E siamo morti. E’ stata una lunga agonia, ma per fortuna siamo morti.
Oggi il Labour di Jeremy Corbyn ha riavvolto il nastro e ha presentato un programma che finalmente riprende quel filo che noi allora tagliammo. Il programma del Labour prevede la cancellazione delle tasse universitarie, la nazionalizzazione delle ferrovie, dell’energia elettrica, dell’acqua, delle poste, il sostegno alla sanità pubblica, l’abolizione dei contratti di lavoro zero-hours, che sono la forma meno tutelata di rapporto di lavoro in quel paese, l’aumento della tassa sul reddito e sulle imprese, la lotta all’evasione fiscale.

I laburisti del Regno Unito ci dicono che è possibile e che con questo programma così “antico” si può anche vincere. Poi qualcuno di voi è liberissimo di pensare che tutto questo non ci riguardi e che magari si possa tornare a vincere con D’Alema e il “nuovo” Ulivo. Io vorrei un partito che assuma come programma la Clausola IV, così come l’hanno scritta quei vecchi socialisti all’inizio del Novecento:

Ottenere per i lavoratori il pieno frutto della loro fatica manuale e intellettuale e assicurarne la più equa distribuzione, che può essere resa possibile partendo dalla proprietà comune dei mezzi di produzione, distribuzione e scambio, e dal miglior sistema che possiamo ottenere di amministrazione e di controllo da parte del popolo di ogni industria e servizio.

se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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