L’anomalia è la costante della politica italiana. Ma non intesa con un significato positivo, quindi una terapeutica deviazione rispetto alla consuetudine delle norme, alla ripetitività della disciplina del diritto: ogni tanto qualche granello di sabbia fa bene anche all’ingranaggio perché, togliendolo, ci si si ricorda di averne cura, oliandolo, mantenendo attenzione al complesso istituzionale che chiamiamo democrazia, repubblica e Costituzione.
Invece, stiamo assistendo da alcune settimane ad un indecoroso balletto di nomi tradotti in un latino improbabile tanto quanto le proposte di legge elettorale che si trascinano dietro.
Il “Tedescum”, l’ultima proposta in campo di legge per l’elezione dei due rami del Parlamento, è l’ennesima apparenza che, per l’appunto, sembra proporzionale ma è maggioritaria, sembra democratica ed invece di essere includente della volontà popolare è escludente. Il tutto a discrezione dei più forti.
Perché, ma guardate un poco che novità!, sono i potenti che fanno le regole, sono quelli forti, “che hanno i numeri” a dire come dovrà esprimersi il popolo italiano sulle schede per dare la sua delega nella rappresentanza della Nazione.
E i forti hanno deciso che i più deboli devono sparire, i piccoli devono essere esclusi: chi anche dovesse ottenere 1.500.000 voti (un milione e mezzo di voti), pari al 4,5% circa dell’attuale corpo elettorale, sarà fuori dalla ripartizione dei seggi di Camera e Senato.
La democrazia vera è partecipazione e la partecipazione dovrebbe essere consentita a tutti: anche a quelli che rappresentano un elemento importantissimo, mai trascurabile in una comunità che voglia dirsi “Nazione”, “Popolo”, “Stato” e tutte e tre insieme questi concetti giuridico-sociali; questo elemento è la minoranza.
Quando la maggioranza si arroga il diritto di decidere le sorti della minoranza, è tutto il sistema che è in pericolo: ed infatti in questi decenni abbiamo assistito ad un circo della democrazia. Leggi elettorali dichiarate incostituzionali, l’attuale Parlamento, che a rigor di norma non potrebbe esercitare i poteri che gli sono attribuiti dalla Costituzione essendo stato eletto con una legge al di fuori delle norme della Costituzione medesima, funziona (im)perfettamente e ha fatto da base di legittimazione ad una proposta governativa che voleva rovesciare il parlamentarismo con un sistema oligarchico.
Un tentativo fallito il 4 dicembre scorso ma i pericoli sono sempre in agguato. Questa possiamo davvero chiamarla “democrazia”? Se fossimo tutti completamente sinceri, ammetteremmo, o meglio altri ammetterebbero, che stanno tentando di costruire l’ennesima legge che invece di rispettare il volere degli elettori, cercherà di trasformarlo a vantaggio di questo piuttosto che di un altro schieramento, facendosi largo tra le maglie della correttezza, dell’uguaglianza del voto, della sua equipollenza singolare a prescindere dalla scelta che ogni singolo cittadino farà nella cabina il giorno delle elezioni.
Siccome la sincerità, insieme quindi alla verità, è rivoluzionaria, e qui di coscienze critiche in grado di ribellarsi per rivoltare un po’ le cose, non ve ne è nemmeno l’ombra, tutto verrà infarcito delle belle parole: sento già i panegirici sulla necessità di dare sviluppo al Paese, di dargli stabilità e di essere loro, i forti, i portatori di tutto questo.
La democrazia della forza. Non la forza della democrazia.
“Esistono cose ben più gravi di uno sbarramento al 5%”. L’ho sentito dire in televisione, forse l’ho ascoltato stancamente anche alla radio. Indubbiamente. Chi elabora già uno sbarramento del 5% è già peggiore dello sbarramento stesso.
E fin qui ci vuole poco a capirlo. Credo…
Il punto più controverso sta a sinistra, perché mentre lo spettro dell’asticella esce dalle nebbie e si fa sempre più chiaro e concreto, se si corre o lo si salta o si inciampa, ci si fa male e non si arriva al traguardo.
Quindi superare il 5% diventa l’unico programma della sinistra di alternativa che è in diaspora permanente, in frammentazione sempre più subatomica e che punta ad unirsi solo per paura e non provando a creare una “domanda di sinistra” nel Paese, facendola crescere con un lavoro di erosione dell’antisociale che il governo promuove con le sue politiche, che le destre alimentano con il loro odio tra i poveri e i più umili, che i populisti fanno finta di combattere in nome soltanto dell’onestà: che esistano sfruttatori (padroni, imprenditori, chiamateli come volete… sempre quello sono) e sfruttati è secondario. Ciò che conta è aumentare i profitti, dividere i più deboli (economicamente e socialmente tali) e far apparire normale lo stato di cose presente. Naturale.
Per poter superare quel fatidico 5%, dunque, fatti i debiti conti, secondo stime sondaggistiche – quindi pseudo percezioni scientifiche – e analisi varie, bisognerebbe mettere insieme le forze da Rifondazione Comunista ad Articolo 1, da Sinistra Italiana a Possibile, dal PCI di nuova micro generazione al Campo progressista di Pisapia.
Poniamo che questo sia lo scenario che ci si prospetta innanzi. Anche solo ipoteticamente parlando e scrivendo, queste forze politiche sono frutto di scissioni dal PD, da Sinistra Italiana, da Rifondazione Comunista.
Solo Rifondazione Comunista è una forza “originaria”. Non credo però che questo oggi possa essere un merito, un elemento che faccia “punteggio”. Contano le figure in campo, contano i rapporti politici e, quindi, la storia di queste persone che hanno avuto a che fare con il governo del Paese più volte e che, fino a poco tempo fa, erano – seppur criticamente e in minoranza – parte integrante di quel PD che ha prodotto una serie di misure antisociali frutto delle politiche liberiste dettate da Bruxelles.
In sintesi: Rifondazione Comunista ha terminato i suoi lavori congressuali pochi mesi fa. La linea uscita dal X Congresso nazionale è chiara: costruzione di un polo della sinistra di alternativa antiliberista e, parimenti, rilancio di Rifondazione Comunista nel contesto sociale e politico del Paese.
Abbiamo detto e scritto che riteniamo chiusa la stagione del centrosinistra, irriproponibile e, pertanto, abbiamo dichiarato che occorre costruire la sinistra di alternativa.
Ciò va a scontrarsi letteralmente con le posizioni di Giuliano Pisapia e di esponenti come Roberto Speranza, Pierluigi Bersani, Massimo D’Alema. Va quindi a cozzare con Campo progressista e Articolo 1.
Il diradarsi della nebbia, però, e l’asticella del 5% che comincia a mettere in ansia i “piccoli”, fa uscire allo scoperto, fa fare dichiarazioni di disponibilità. Civati ha dichiarato che è pronto a ragionare di un accordo con Articolo 1. Fratoianni di Sinistra Italiana non esclude una riflessione in merito.
Io penso, invece, che noi di Rifondazione Comunista questo problema non dovremmo nemmeno porcelo. Se ce lo poniamo, se lo traduciamo già in essenza, allora significa che deviamo già solo per questo dalla linea espressa dal X Congresso.
Se ci sorge il dubbio se allearci o meno, qualora ci si presentasse davanti il bivio, con D’Alema e Bersani, con Pisapia e Gotor, significa che non siamo sicuri della linea politica che abbiamo scelto al Congresso.
Abbiamo stabilito che l’anticapitalismo è un recinto troppo stretto per creare un’alleanza della sinistra di alternativa: quindi, abbiamo declinato la stessa “alternativa” sul terreno più ampio dell’”antiliberismo” in cui si possono riconoscere (forse) anche Civati, probabilmente molti comitati del NO al referendum, Luigi De Magistris e il suo movimento, tanti movimenti sparsi per l’Italia che si battono contro le grandi opere, contro lo sfruttamento della natura a scopi di profitto privato. Abbiamo quindi detto che non avremmo più fatto alleanze col PD, che anzi il PD è una delle tre destre che questo Paese si porta sul groppone, e che l’antiliberismo era la bussola per la creazione di un polo della sinistra di alternativa.
Non mi sembra che Articolo 1 – MDP sia un movimento antiliberista: si tratta, di un soggetto politico creato “affinché possa nascere un nuovo centrosinistra saldamente ancorato alle culture politiche che ne hanno fatto la storia: da quella della sinistra italiana legata al movimento operaio e alle sue diverse articolazioni, alla cultura cattolica democratica, per arrivare a quella laica, radicale e ambientalista“.
Dunque l’incompatibilità è manifesta: il nuovo centrosinistra non è il nostro orizzonte politico di piccolo e nemmeno medio termine.
Basta il terrore di non rientrare in Parlamento, quindi di riassumere anche le fattezze di forza politica di lotta e di opposizione nel “Palazzo”, per sacrificare una linea politica?
Io penso che non basti e che, anzi, questo ricatto permanente verso le formazioni più piccole sia da respingere e da respingere con fermezza: ogni volta che abbiamo provato ad adeguarci a queste truffe elettorali, abbiamo sempre subito pesanti perdite di consensi proprio nella quotidianità dell’esperienza politica.
Viviamo, però, mi si dice – e me ne rendo perfettamente conto – nella società dell’immagine: dunque se non “appari” non “sei”. Senza l’apparenza non c’è esistenza.
Ma dal 2008 ad oggi, Rifondazione Comunista, pur apparendo sempre molto poco grazie all’oscuramento mediatico che privilegia ovviamente chi fa notizia, chi crea “il caso” del giorno, chi urla magari più forte con ragioni di altri, nonostante tutto questo è sopravvissuta. Logorandosi. La frustrazione è stata ed è ancora tanta.
Ma io non penso che la frustrazione venga meno se, in nome di una pattuglia di deputati da inscrivere nel contesto del gruppo della lista ipoteticamente unitaria da Pisapia a Rifondazione Comunista (da chi ha votato SI’ al referendum costituzionale fino a chi ha votato convintamente NO), avremo una specie di “diritto di tribuna” in Parlamento.
La strada della ricostruzione dell’anticapitalismo e dell’antiliberismo non passa attraverso il superamento del 5% di una legge elettorale fintamente democratico-proporzionale. Passa invece lungo il cammino di un lavoro ben più diluito nel tempo, perché è la via della ricostruzione delle coscienze sociali, di un bisogno di riscatto che non si fa sentire soltanto in Parlamento ma anche nel Paese reale.
Il bivio tra “alleanza sì o no” con forze che vogliono un nuovo centrosinistra, che sono dichiaratamente aperte al sostenimento di un mercato regolabile (sic!), quindi a forze quanto meno socialdemocratiche (prendetelo come un eufemismo…) finirebbe per dividere Rifondazione Comunista in una lotta fratricida: ci spaccherebbe a metà o quasi. Ci trasformerebbe in nemici di noi stessi. Sarebbe la vera morte del nostro Partito.
Ho smesso di credere a Babbo Natale quando avevo sette anni. Forse era già tardi allora per credere alle favole. Ho pensato che le favole fossero degli splendidi racconti per farci evadere un poco dal grigiore della realtà e darci delle lezioni di vita, di comportamento. Come i miti greci.
Non posso oggi permettermi di credere alla favola dell’unità a tutti i costi, in un pasticciato ennesimo cartello elettorale, per “condizionare” domani chissà quale assetto politico che, a ben vedere oggi, sembra indirizzato ad essere un formato da un governo quasi monocolore. L’ira di Alfano, e non del Pelide Achille, è lì a dimostrarlo.
Costruiamo una lista che sia espressione di un programma in cui crediamo veramente e che con sincerità proponiamo al moderno proletariato di questo Paese.
Per favore, non andiamo nelle piazze a dire agli elettori che vogliamo frenare l’avanzata dei liberismi e della distruzione dei diritti sociali alleandoci con chi sogna un nuovo centrosinistra liberal-cattolico-riformista.
Non scadiamo fino a questo punto. Non vi chiedo di sacrificarvi per una indefessa coerenza da brandire come un’arma invincibile. Vi chiedo di tenere fede a ciò in cui con grande schiettezza eravamo e siamo: semplicemente delle comuniste e dei comunisti che hanno smesso di pensare che la società si cambia stando con quelli che la vogliono mantenere tale. Magari imbellettare un poco… Ma dietro sempre lo stesso squallore…

lasinistraquotidiana

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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