Scosse. Dopo il match Gentiloni-Alfano, Lorenzin rischia una bocciatura del Pd sui vaccini. Un altro ministro di Ap, Costa, si dimette. Il premier invoca stabilità, ma tutto dipenderà dalla legge elettorale. E da Berlusconi

La terra sotto i piedi della maggioranza e del governo trema a metà mattinata, ed è una scossa di tutto rispetto. Stefano Esposito, senatore del Pd, prende la parola in aula e afferma forte e chiaro che lui l’emendamento sui vaccini monocomponente, checché ne dica il governo, intende votarlo: «Non accetterò mai che questa scelta venga delegata alle case farmaceutiche».

La ministra Beatrice Lorenzin si fa prendere da un mezza crisi di nervi di fronte agli occhi allibiti dei senatori, ma è chiaro che quello di Esposito non è un caso isolato. Francesco Verducci, vicino al presidente del partito Orfini, informa che si comporterà allo stesso modo. La rivolta serpeggia nell’intero gruppo del Pd. Una settimana fa, quando a sollevare il tema era stata solo la Lega col suo emendamento, tutti avevano finto di non sentire, pur essendo evidente l’assurdità di imporre la rivaccinazione anche a chi è immune. Ora le cose sono diverse: se si votasse il governo andrebbe sotto.

L’unica è sospendere la seduta, chiedere alla commissione Bilancio un nuovo parere e fare proprio l’emendamento dei leghisti. La relatrice Patrizia Manassero lo deposita a suo nome. La ministra è furibonda ma si adegua. La commissione Bilancio aggiunge di suo una nota restrittiva: ok ai vaccini monocomponenti ma «nei limiti della disponibilità del Servizio sanitario nazionale». Alla ripresa l’emendamento passa, l’incidente resta solo sfiorato. Ma la sensazione che il governo sia ormai un guscio di noce in balia degli emendamenti, quella è proprio inevitabile.

Anche perché, proprio nel corso della pausa, arriva un’altra scossa. Il ministro delle Regioni, il centrista Enrico Costa, saluta caramente e lascia il governo. L’esperienza, scrive al premier Gentiloni, «è stata bellissima» ma di dissensi ce ne sono stati e Costa avverte ormai l’esigenza di «evitare ambiguità». Il renziano Andrea Marcucci si compiace: «Non si può stare al governo e solidarizzare con l’opposizione». Il capogruppo Pd alla Camera Ettore Rosato se ne duole ma tanto «il governo non corre rischi».

Gentiloni assume l’interim e valuta con quale centrista sostituire il dimissionario. Angelino Alfano non batte ciglio: «Dimissioni inevitabili e tardive. Noi abbiamo idee, forza e coraggio per fare qualcosa di grande. Comprendiamo che chi non ce la fa faccia scelte diverse». Per dirla più semplicemente: che Costa se ne torni ad Arcore.

Per la verità a «non farcela» sarebbero in molti, se le porte di Forza Italia non fossero chiuse. Berlusconi i penitenti non li rivuole in casa propria. Sta pensando di dar vita a una specie di «contenitore centrista» per accoglierli. Ma il particolare non modifica lo stato delle cose: a decidere sulla tenuta della maggioranza, oggi, è ancora una volta Berlusconi. Gli basterebbe un cenno per farla franare.

Quella di Enrico Costa è una scossa di assestamento, attesa e prevista. Non altrettanto però può dirsi del litigio a muso duro che la sera prima aveva visto fronteggiarsi il presidente del consiglio e il ministro degli Esteri. A lacerare era il solito ius soli. Paolo Gentiloni ha rinviato ma le reazioni rendono difficile evitare di forzare la mano a settembre. E a quel punto la fiducia sul testo della Camera, spiega al furibondo Alfano, sarà inevitabile. Angelino sbraita, protesta, punta i piedi. Come andrà a finire nessuno può dirlo, ma anche questo non è certo un buon auspicio quanto a tenuta della maggioranza in autunno.

Le scosse di questi giorni non sono ancora il terremoto ma il suo prologo: scosse d’avvertimento. Maggioranza e governo arriveranno ad agosto, ma il prosieguo è avvolto nelle tenebre. Non a caso con chiunque si parli di legge di bilancio ci si sente ripetere che «alla fine passerà: qualcuno la voterà». Ma chi sarà quel «qualcuno» nessuno al momento si azzarda a ipotizzarlo.

In realtà la situazione non è affatto facile e basta leggere tra le righe le affermazioni del premier per cogliere segnali di preoccupazione massima: «Abbiamo di fronte un passaggi cruciale che per essere colto ha bisogno della stabilità del quadro istituzionale ed economico». Di quella stabilità non c’è traccia. Se si materializzerà o meno dipenderà da quel di cui tutti già parlano anche se quasi nessuno in via ufficiale: dalla legge elettorale. Se avrà successo la manovra che una larga parte del Pd sta preparando, a dispetto del segretario, e torneranno in campo le coalizioni, l’effetto di stabilizzazione sarà assicurato. Anche se probabilmente il costo sarà poi una vittoria della destra. Se la manovra fallirà, sarà invece una guerra di tutti contro tutti e anche solo a nominare la parola stabilità, in autunno, verrà da ridere.

Ma anche le sorti di quella manovra spericolata, progettata a dispetto di Beppe Grillo e dello stesso Matteo Renzi, dipendono da quel che deciderà un solo leader, senza il quale la partita delle coalizioni non comincerà neppure: da Silvio Berlusconi.

lasinistraquotidiana

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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