C’è un cartello davanti alle rovine di Amatrice: “No selfie, luogo di rispetto”. E alla fine della frase il punto esclamativo per evidenziare il tassativo divieto, prima di tutto morale, ad evitare di posizionare il telefonino davanti a sé con dietro il tragico non-spettacolo dei paesi distrutti un anno fa dal terribile movimento terrestre che ha causato morti e feriti e che rimane una ferita non rimarginata nel centro Italia.
Quel cartello che ammonisce ad evitare ulteriore spettacolarizzazione, seppure privata ma certamente pubblica pochi attimi dopo sulle reti sociali, è l’unico gesto di rispetto che dopo tanto tempo ho visto concretamente espresso nei confronti non della pietà verso le vittime del sisma, ma verso l’umanità della gente che rimane in quei luoghi: perché le vittime sono sempre di due tipi. Sono i sepolti dalle macerie e sono coloro che restano intorno alle macerie e queste ultime tutte intorno a loro.
Dopo un anno, speciali televisivi, grandi paginate di giornali nazionali mettono a confronto le foto di allora e di oggi: dalle stesse angolazioni operano una simmetria di contrasto. Come era e come è oggi quella terra distrutta. Sembra uguale, sembra che nulla sia cambiato. Anzi, per certi aspetti, dopo ripetute scosse telluriche, molte foto d’oggi sono persino peggiori in quanto a distruzione rispetto a quelle istantanee fatte immediatamente dopo il grande crollo generale che ha interessato Marche, Umbria e alto Lazio.
La colpa del terremoto è soltanto quella di essere un fenomeno di portata così enorme da non poter essere controllato da quell’essere umano che invece si picca di poter in qualche modo gestire ogni ambito della sua vita, di tenere sotto controllo qualunque cosa: eventi pratici, emozioni, agi e disagi.
Il patetico emerge quando si discute del terremoto e lo si maledice: a che serve? Forse a scaricare dell’energia, anche in questo caso, ma proveniente dai nervi e dalla tensione tutta umana. Ma, fatto ciò, si rimane nel campo della quasi-superstizione geologica, come se si potesse lanciare un anatema contro un dio della “calma della terra”, magari preso dall’ira per il cattivo comportamento umano.
Un po’ la storia di Sodoma e Gomorra e del dio vendicativo o giustiziere (a seconda dei punti di vista) che ha distrutto le due città parte della Pentapoli.
E’ tutto molto, tremendamente umano ciò che rimane sopra il terremoto: sembra tutto imperscrutabile e maledicibile ciò che è invisibile al nostro occhio: questa forza che da faglie che si sfregano fra loro produce sommovimenti tali da sconvolgerci la vita, da annientare in un attimo la costruzione tanto materiale quanto morale dell’esistenza di chi si trova a rovinare sempre più in basso come le macerie della propria abitazione…
Il patetico, dunque, emerge quando sulle reti sociali, in televisione e alla radio i giornalisti fanno domande penosamente banali, quasi offensive nei confronti degli sfollati: “Che cosa provate ora che la vostra casa è distrutta?”. Ma che cosa volete che si possa provare quando non si ha più niente? Disperazione, rabbia, dolore. Forse sarebbe meglio tacere o fare domande sensate e non chiedere: “Quando avete sentito la scossa cosa avete fatto?”. Che diamine si pensa si possa fare quando si avverte un terremoto? Si fugge, ci si ripara in qualche modo sotto ad un tavolo, si evita qualunque comportamento pericoloso seguendo semplicemente l’istinto.
Invece la voglia di macabro, di terribile, di dolore da esporre al pubblico interesse è così forte che fa reclamare il banale che si trasforma in insulto, in ossessione per il tragico che eccelle a primo attore di una scena dove qualcuno magari fa a farsi i selfie con dietro le macerie di Amatrice.
Fino a che sarà necessario esporre un cartello con la raccomandazione di evitare questi comportamenti squallidi ed immorali, ciò vorrà significare che non c’è nessuna evoluzione vera nel dinamismo sociale verso un rispetto sincero per il dolore. Senza esclamazioni. Senza spettacolarizzazioni. Senza notizie di troppo: quindi senza commenti. La cronaca dovrebbe bastare a tutte e tutti noi per provare quella giusta compartecipazione di dolore che dovrebbe derivare anche dalla constatazione dell’imprevedibilità del terremoto.
Dovrebbe, almeno questo, unirci tutti nel comprendere che “oggi è toccato a te e domani può toccare a me”. E a voi piacerebbe se dei turisti del macabro venissero a scattarsi i selfie nella vostra città appena devastata da un sisma? Non credo. Eppure avviene e avverrà ancora. L’umano esprime sempre qualche inumanità nascosta.
Dalle case abusive ai selfie: illegalità e immoralità. Cos’è peggio?

 

http://www.lasinistraquotidiana.it/wordpress/tra-case-abusive-e-selfie-sulle-macerie/

 

 

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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