La recente emersione del movimento delle donne, che in Italia ha assunto in particolare il volto della straordinaria rete Non una di meno, ha alle spalle azioni e dibattiti spesso trascurati. Nel il 2009, ad esempio, della Libreria delle donne di Milano è stato avviata una grande discussione – con un manifesto dal titolo “Sottosopra. Immagina che il lavoro” -, intorno alla quale è intervenuta recentemente anche Lea Melandri con un articolo su Comune (Quel lavoro che non è un lavoro). Le domande sollecitate da quel dibattito hanno nutrito incontri, seminari, azioni e restano oggi in tutta la loro drammaticità e attualità. Se il mercato si è impossessato del pensiero femminista sull’impossibilità di separare tempo di vita e di lavoro, distorcendolo a proprio vantaggio e facendone un asse portante della propria strutturac’è qualche possibilità che la soggettività e possibilità di autodeterminarsi delle donne ne esca rafforzata o si corre soltanto il rischio che tutto sia fagocitato dalle diverse forme, vecchie e nuove, dello sfruttamento globale? Le cose certe sono due. La prima: i quesiti sono ardui, importanti e non sopportano semplificazioni. La seconda: quello delle donne è un pensiero per tutti

Le foto di questo articolo sono tratte dalla pagine facebook di Non una di meno Reggio Emilia

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di Carla Maria Ruffini*

Uno dei vantaggi dell’estate (anche questi sempre più scarsi) è rappresentato dal poter metabolizzare e reagire a contributi di riflessione importanti che ci ha messo a disposizione Comune per fare quel faticoso ma fecondo lavoro che riteniamo irrinunciabile: capire le dinamiche del contesto in cui ci troviamo a malvivere e poterci organizzare per contrastarle.

L’articolo di Lea Melandri Quel lavoro che non è un lavoro e l’incontro felicissimo, favorito dalla stessa Lea, tra l’Assemblea di Non Una Di Meno di Reggio Emilia e Adriana Nannicini e Cristina Morini, autrici di libri e saggi sul lavoro delle donne, ha originato una riflessione, tuttora in corso, e stimolato una discussione di grande rilevanza e interesse, sia per le femministe ‘storiche’ sia per quelle più giovani, sul significato del lavoro delle donne e per le donne.

Ci siamo interrogate, tutte insieme, sul ‘modello’ – ma sarebbe più appropriato dire sulla realtà incarnata nelle nostre pur non omologabili biografie – della ‘doppia presenza’ (o del “doppio sì”) che configura un’identità multipla, policentrica, e si presenta a noi con due facce, una in luce e una in ombra. Il lato in luce, al di là delle retoriche sulle ‘virtù’ del lavoro femminile – che troppo spesso diventano strumento funzionale allo sfruttamento pervasivo di corpi e menti -, è la capacità di gestire l’imprevisto, la contemporaneità dei tempi, di muoversi su più piani tra una pluralità di contesti, trasferendo in ciascuno i codici acquisiti negli altri. Sul lato in ombra si disegnano la difficoltà e la fatica di gestire appartenenze diverse, logiche potenzialmente conflittuali.

Donne ‘acrobate’, con capacità infinite di profondere energia ma anche di far risaltare i lati oscuri, i rischi e i pericoli del continuo andare e venire, tra diversi luoghi e universi di regolazione materiale e simbolica. Come ci sentiamo in tutto questo, come ci percepiamo? Impegnate, appunto, in una permanente ma felice acrobazia, in una condizione di fecondo nomadismo che genera capacità e risorse, o in fuga da una gabbia all’altra? Queste domande non possono essere eluse e le risposte, che attraversano ampiamente il pensiero femminista ‘codificato’, esigono oggi, ai tempi della finanziarizzazione dell’economia capitalistica e dell’esplosione del movimento femminista internazionale e “intersezionale”, un importante sforzo di aggiornamento e approfondimento, sollecitandoci ancora una volta a partire dalla nostra esperienza, dal “Sé” sessuato, motore del metodo di analisi e lotta femminista nelle sue diverse declinazioni e contestualizzazioni. Un “”che oggi presenta una grande propensione (e potenzialità) a trasformarsi in un corale e plurale “Noi”.

Da tempo si teorizza il “modo di produzione femminile” (la “femminilizzazione del lavoro”), ovvero il lavoro ‘informale’ inteso come trasferimento di servizi materiali, relazionali, psicologici, di rigenerazione affettiva, nella dura professionalità del mondo del lavoro, il lavoro delle donne come tessuto costitutivo e connettivo della socialità lavorativa. Il valore di questo lavoro nel lavoro, se così si può definire la fatica dell’elaborazione quotidiana delle spinte affettive, emotive e relazionali, proprie e altrui, che incontriamo in modo pervasivo in tutti i luoghi del vivere, compresi gli ambienti lavorativi – oltre naturalmente a quella quota rilevante di servizi domestici e di cura, più che mai informali, che ci troviamo a dover gestire nella quasi totalità dei luoghi di lavoro -, è silenziosamente e subdolamente espropriato dall’attuale organizzazione del lavoro, e al tempo stesso totalmente disconosciuto. Perché, come si chiede Lea Melandri, non siamo ancora riuscite, nonostante le tante lotte femministe, a farlo uscire dall’invisibilità e a imporne un adeguato riconoscimento?

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E c’è un dilemma, strettamente intrecciato alla riflessione precedente, che riguarda il come viviamo la dualità del lavoro flessibile e atipico. Anch’esso dilemma basilare e non eludibile. Tale tipologia di lavoro, diventata ormai il ‘modo privilegiato’ di organizzare il lavoro e il non-lavoro e di marchiare a fuoco le vite-che-non-sono-vite, si trasforma il più delle volte in precarietà lavorativa ed esistenziale e ‘tradisce’ deliberatamente le potenzialità di liberazione annunciate. L’impossibilità di intraprendere un percorso auto costruito, sviluppando una progettualità definita da noi, fuori dal recinto della libertà condizionata e degli arresti domiciliari, fa sì che nella stragrande maggioranza dei casi le nostre scelte individuali siano eteronome, non negoziabili e imposte dall’esterno.

La flessibilità lavorativa, definita in alcuni studi sul tema “flessibilità postfordista”, che potrebbe essere vissuta come occasione di maggiore libertà per le donne (e per qualcuna, forse per tante, appare come una possibilità di sottrarsi alle catene del lavoro fisso e alienante), è davvero tale o rischia di trasformarsi nella trappola della ‘disponibilità permanente’? Se il mercato ha accolto e sfruttato, inglobandole nell’organizzazione del lavoro, le nostre modalità di produzione e ci ha riconsegnato un modello lavorativo che invade la nostra vita, i nostri spazi e i nostri tempi, questo significa per noi disporre di una maggiore libertà o lasciare che la nostra intera vita sia ‘colonizzata’ e consegnata al mercato?

Intorno a queste monumentali questioni si è sviluppato alcuni anni fa (tra il 2009 e il 2010) uno stimolante dibattito sollecitato dal contributo “Sottosopra. Immagina che il lavoro” della Libreria delle donne di Milano, alimentato dall’articolo di Rossana Rossanda apparso su il manifesto “L’altra metà del lavoro” e dalla risposta di Cigarini, Masotto e Zanuso, dalle testimonianze e riflessioni del collettivo Dwf in “Diversamente occupate” del 2010 (in cui si trova anche il penetrante saggio di Cristina Morini, “Il lavoro nell’epoca delle passioni tristi”) – per citare solo alcuni degli scritti più significativi che hanno caratterizzato la riflessione sul lavoro delle donne (e sul lavoro in generale) nel periodo a cavallo tra il primo e il secondo decennio del nuovo secolo. Periodo in cui si conoscevano solo parzialmente le dirompenti implicazioni della frammentazione e precarizzazione del lavoro, che si sono manifestate in tutta la loro evidenza pervasiva e devastante in questi ultimi anni, divenendo consapevolezza collettiva nel movimento femminista, fino a determinare le condizioni per l’indizione dello sciopero ‘globale’ dal lavoro produttivo e riproduttivo messo felicemente in scena l’8 marzo scorso.

Le domande (e in qualche caso le risposte) sollecitate da quel dibattito rimangono in tutta la loro drammaticità e il consolidarsi e ‘abbruttirsi’ della femminilizzazione del lavoro ce ne consegna altre ancor più drammatiche. Se il mercato si è impossessato del pensiero femminista sull’impossibilità di separare tempo di vita e di lavoro, distorcendolo a proprio vantaggio e facendone un asse portante della propria struttura (con la beffa di una rappresentazione delle donne lavoratrici in cui tutto è teoricamente armonizzabile), c’è qualche possibilità che la nostra soggettività e possibilità di autodeterminarci ne esca rafforzata o corriamo il rischio di essere fagocitate dal tempo e dal modo dello sfruttamento ‘globale’?

I quesiti sono ardui e non sopportano semplificazioni, l’impegno di riflessione di tutte noi deve essere all’altezza del movimento che attualmente meglio interpreta le istanze femministe e dà concretezza e continuità alle lotte per la liberazione dallo sfruttamento capitalistico, nella sua dilagante versione neoliberista, e dal perdurante (mai vinto) giogo patriarcale.

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* Docente presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna e formatrice in ambito pubblico, si occupa da anni di diritti sociali e civili e di beni comuni (oggi in particolare con Arsave-Laboratorio per la città che vogliamo, Università Invisibile e Forum dei movimenti per l’acqua). Femminista da sempre, è impegnata nel movimento Non Una Di meno. Ha aderito alla campagna Un mondo nuovo comincia da qui

https://comune-info.net/2017/08/pensiero-delle-donne-sul-lavoro/

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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