di Dean Baker

La spiegazione più popolare della forte ascesa della disuguaglianza negli ultimi quattro decenni è la tecnologia. Si afferma che la tecnologia ha aumentato la domanda di competenze sofisticate erodendo la domanda di manodopera manuale di routine.

Questa visione ha il vantaggio rispetto a spiegazioni concorrenti, come la politica commerciale e quella del mercato del lavoro, di poter essere considerata come qualcosa che è avvenuto indipendentemente dalla politica. Se la politica degli scambi o la politica del mercato del lavoro spiegano il trasferimento di reddito dai lavoratori comuni agli azionisti e ai più specializzati, allora implica che la disuguaglianza è stata mossa dalla politica, è il risultato di decisioni consapevoli di quelli al potere. Per contro, se colpevole è stata la tecnologia, possiamo continuare a star male per la disuguaglianza ma si tratta di qualcosa che è successo, non di qualcosa che abbiamo fatto noi.

Tale idea può essere confortante per i beneficiari della crescente disuguaglianza, ma non ha molto senso. Anche se lo sviluppo della tecnologia può avere in qualche misura una logica propria, la distribuzione dei benefici della tecnologia è determinata dalla politica. Cosa più importante, chi riceve i benefici della tecnologia dipende in un modo molto fondamentale dalla nostra politica sui brevetti, i diritti d’autore e altre forme di proprietà intellettuale.

Per chiarire questo punto si consideri quanto denaro Bill Gates, la persona più ricca del mondo, avrebbe se Windows e altro software Microsoft non fossero protetti da brevetti o diritti d’autore. Significherebbe che chiunque, dovunque nel mondo, potrebbe installare tale software sul proprio computer e farne milioni di copie senza pagare un centesimo a Bill Gates. Da persona intelligente e di famiglia ricca, Bill Gates probabilmente continuerebbe a passarsela bene in questo mondo, ma probabilmente non sarebbe tra i super-ricchi. In realtà probabilmente continuerebbe a lavorare per vivere.

La tesi a favore della proprietà intellettuale è ben nota. Il governo concede a singoli e imprese monopoli per un certo periodo di tempo il che consente loro di praticare un prezzo molto più alto di quello di mercato per gli articoli di cui hanno il brevetto o il diritto d’autore. Questo monopolio dà loro un incentivo a innovare e a condurre lavoro creativo.

Naturalmente questo non è il solo modo per offrire tale incentivo. Ad esempio il governo può pagare direttamente, e lo fa, per molta ricerca. Spendiamo trenta miliardi di dollari l’anno in ricerca biomedica attraverso l’Istituto Nazionale della Sanità. Vari dipartimenti e agenzie del governo finanziano decine di miliardi di ricerche ogni anno in una grande varietà di aree. In realtà sono state le ricerche del Dipartimento della Difesa che hanno sviluppato Internet e anche Unix, il programma alla base del Dos, il sistema operativo originale di Microsoft.

Il governo sostiene anche, direttamente o indirettamente, una gran quantità di lavoro creativo e artistico. Il Fondo Nazionale per le Arti e gli Studi Umanistici finisce sui titoli dei giornali come bersaglio politico della destra, ma in realtà molto più lavoro è sostenuto mediante deduzioni fiscali per contributi di beneficienza, che coprono 40 centesimi di ogni dollari che i ricchi donano a orchestre, teatri, musei d’arte e altre istituzioni non a fini di lucro con sostengono le arti.

E’ ragionevole chiedersi se i brevetti e i diritti d’autore siano il meccanismo più efficiente per sostenere l’innovazione e il lavoro creativo. Nel mio libro Rigged: How the Globalization and the Rules of the Modern Economy Were Structured to Make the Rich Richer [Manipolati: come la globalizzazione e le regole dell’economia moderna sono state strutturate per rendere più ricchi i ricchi] ho sostenuto che nel ventunesimo secolo si tratta in realtà di meccanismi molto inefficienti a questo scopo. Ma a parte la questione se questi siano i meccanismi migliori, non c’è vera discussione sul fatto che la proprietà intellettuale redistribuisce il denaro da quelli che non la detengono a quelli che ne dispongono. Non molte persone con solo diplomi delle superiore detengono brevetti o diritti d’autore; fanno parte della storia della redistribuzione verso l’alto.

Poiché la proprietà intellettuale può essere o più lunga e più forte oppure più breve e più debole, la decisione su quanta proprietà intellettuale abbiamo è implicitamente una decisione riguardante il bilanciamento tra crescita e disuguaglianza. (Ciò presuppone che norme più lunghe e più forti sulla proprietà intellettuale conducano a maggiore crescita, il che è un punto discutibile, specialmente poiché la crescita della produzione è rallentata fino ad arrancare nell’ultimo decennio). Se siamo preoccupati per il livello di disuguaglianza nella società, un modo per affrontare il problema consisterebbe nell’abbreviare la durata dei brevetti e dei diritti d’autore o nel ridurre la loro portata in modo che abbiano un valore inferiore.

Ciò significherebbe meno soldi per l’industria farmaceutica, l’industria delle attrezzature medicali e l’industria del software, nonché per molti altri settori che traggono un vantaggio sproporzionato dalla proprietà intellettuale. Gli azionisti di queste industrie subirebbero un colpo al loro reddito, così come i dirigenti di vertice e i lavoratori con un’elevata istruzione che essi impiegano. Il resto del paese vedrebbe un aumento del proprio reddito poiché il prezzo di una vasta gamma di prodotti diminuirebbe bruscamente.

E in gioco c’è una grande quantità di denaro. Siamo sulla via di spendere quest’anno più di 450 miliardi di dollari in soli farmaci su ricetta.  Se tali farmaci fossero venduti in un mercato libero senza brevetti o altre forme di protezione, quasi certamente spenderemmo meno di 80 miliardi di dollari. (Immaginate che il prossimo grande farmaco per la cura del cancro si venda a poche centinaia di dollari anziché ad alcune centinaia di migliaia). La differenza di 370 miliardi è quasi il due per cento del PIL. E’ circa sei volte l’importo in gioco nel dibattito sulla revoca della Legge sulle Cure Accessibili. Se aggiungiamo gli altri settori nei quali la proprietà intellettuale è responsabile di gran parte del prezzo, la somma sarebbe quasi certamente due o tre volte maggiore.

Dal 1980 c’è stata una gran varietà di misure che hanno rafforzato ed esteso le protezioni della proprietà intellettuale in una varietà di aree. L’ambito della brevettabilità è stato esteso a nuove aree quali il software, metodi aziendali e forme di vita. La durata dei diritti d’autore è stata portata da 55 a 95 anni (retroattivamente) ed è stata estesa a Internet in un modo che rende terze parti responsabili di farla rispettare. E forti norme sulla proprietà intellettuale sono state imposte a paesi in via di sviluppo in trattati commerciali come condizione per l’accesso ai mercati statunitensi.

E’ discutibile quanto queste o altre misure abbiano promosso la crescita economica, ammesso che l’abbiano fatto, ma in nessuno di questi casi c’è stata una seria discussione circa l’impatto sulla distribuzione. In altre parole non abbiamo mai sentito membri del Congresso dibattere se norme più forti sulla proprietà intellettuale potessero avere un effetto sulla distribuzione tanto negativo da superare qualsiasi beneficio derivante dall’aumento della crescita.

Mentre andiamo avanti a sentire racconti di robot e intelligenza artificiale che tolgono il lavoro a un gran numero di persone, dovremmo renderci conto che qualsiasi ridistribuzione dai lavoratori ai “proprietari” di tali tecnologie è una scelta politica. Se tutto il sapere associato alle nuove tecnologie fosse di dominio pubblico essere sarebbe a buon prezzo. Saremmo tutti in grado di acquistare i robot più progrediti per poco più del costo dei materiali che contengono. I robot pulirebbero le nostre case, cucinerebbero i nostri pasti, taglierebbero l’erba dei nostri giardini e farebbero il nostro bucato. Nuovi farmaci salvavita costerebbero poco più dell’aspirina generica e le attrezzature più sofisticate di scannerizzazione medica sarebbero disponibili al prezzo di una vecchia apparecchiatura a raggi X.

Le persone che hanno sviluppato tale tecnologia continuerebbero a essere ben pagate per il loro lavoro, ma non finirebbero ricche come Bill Gates o Mark Zuckerberg. In realtà se alleggerissimo a sufficienza le protezioni dei brevetti e dei diritti d’autore, i geni della tecnologia del futuro se la passerebbero bene quanto i loro omologhi di cinquant’anni fa; sarebbero ben remunerati ma certamente non super-ricchi.

E’ possibile che pagheremmo un forte prezzo in termini di ridotta innovazione e crescita della produttività seguendo questa via, ma questo è un punto che va dimostrato, non semplicemente affermato. E dovremmo chiederci se i benefici in termini di maggiore uguaglianza sarebbero tali da renderci disposti a sacrificare parte della crescita.

In ogni caso prima di rispondere a tali domande dobbiamo cominciare col porcele. Questo significa innanzitutto e soprattutto riconoscere che la tecnologia non produce mai disuguaglianza; è la politica sulla tecnologia che determina la disuguaglianza. Una volta riconosciuto tale fatto elementare possiamo avere un dibattito più serio su come meglio strutturare la politica della tecnologia.

Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/blaming-inequality-on-technology/

Originale: Huffington Post

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2017 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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