di Riccardo Carraro

Il 15 Novembre, con una pomposa celebrazione con tutti i membri dell’élite polico-industriale del nostro paese, ha aperto i battenti a Bologna Fabbrica Italiana Contadina: la Disneyland del cibo. Abbiamo chiesto di commentare questa apertura e il suo significato a Wolf Bukowski, autore de La Danza delle Mozzarelle e attivo nel movimento Genuino Clandestino .

Fico è un insieme di negozi, ristoranti e spazi espositivi sulla scorta del modello Eataly, un’opera gigantesca (100mila metri quadri), con un portato simbolico e materiale molto pesante e un impatto ecologio devastante. Fico è espressione massima del potere di Oscar Farinetti e delle Coop all’interno del settore alimentare.

 

Fin dal 2015 con La danza delle mozzarelle hai denunciato lo stretto legame tra capitalismo italiano, mercificazione del cibo e costruzione di una narrazione attorno al tema alimentazione che rendesse attraente una versione falsa e classista del “mangiare sano”. Hai pure raccontato come questa versione perbenista nella realtà stia asfaltando la piccola produzione agricola. Dopo 3 anni c’è stata Expo, l’espansione di Eataly in tutta Italia e ora Fico. L’analisi del 2015 è ancora valida? Cosa è cambiato? E cosa rappresenta all’interno di questa narrazione tossica l’apertura di Fico?

Purtroppo è ancora valida, lo conferma Gentiloni che, inaugurando il parco tematico di Bologna, dice: «Il Fico è l’Italia». Cioè, un luogo in cui il ruolo del pubblico è solo quello di compiacere il capitale privato, le istanze ambientali sono pervertite in trovate green e la filiera alimentare è raccontata sempre dal punto di vista del padrone. L’Italia, cioè il Fico, è un luogo in cui non si risponde alle sperequazioni sociali ma si ripetono slogan («turismo!», «export!»), fingendo che possano funzionare, e li si intonano con la noncuranza di chi è convinto che, comunque, non verrà chiamato a pagare il conto.

Quello che colpisce, rispetto a Fico, è l’intreccio di tutti i maggiori poteri economici e politici della città (e pure del paese) attorno all’opera, al profitto che può generare e agli interessi da coltivare attorno ad essa. Ci puoi brevemente raccontare questo intreccio?

Sarò molto breve: in questo paese, nonostante la narrazione furbetta e antisociale dell'”austerità”, ci sono soggetti che hanno un sacco di soldi. Tra questi ci sono le Coop (col prestito sociale), gli enti previdenziali privatizzati, certe società finanziarie più o meno di Stato. Ne hanno così tanti che anche metterli in un’impresa dalla riuscita dubbia, come Fico, è una soluzione interessante, almeno rispetto a quella di comprare titoli di stato dal rendimento bassissimo. È comunque utile saperlo, sapere dove sono i soldi: quando il vento cambierà e le classi subalterne rivendicheranno il ruolo che gli spetta nella divisione della torta, sarà bene ricordarselo.

Il confronto tra Marta Fana e Farinetti in tv è diventato virale nei social, stiamo lentamente mettendo in crisi alcune certezze attorno ad uno dei più grandi sponsor di Renzi? Credi che rispetto al 2015, anno in cui l’opposizione al sistema Expo è rimasta circoscritta alla sinistra radicale, ora qualche crepa si possa aprire?

Da un lato vorrei crederlo, ma fin qui non lo vedo. Dall’altro voglio ricordare: è sempre utile indicare in Farinetti il modello di ciò che contrastiamo, ma bisogna comunque rifuggire dalla personalizzazione, perché questa può ritorcersi contro di noi. In Eataly, dopotutto, si lavora a condizioni migliori che in gran parte degli altri ristoranti. La colpa di Farinetti è macroscopica, è nel suo aver contribuito all’identità assoluta tra ragioni del capitale e ragioni della politica. Se poi siamo anche in grado di coglierlo in fallo sulle sue prassi aziendali meglio, ogni occasione va colta, ma sempre avendo presente l’ordine di priorità. Vedo anche il rischio di un anti-Farinettismo sul conio dell’anti-Berlusconismo e lo vedo per esempio nell’entusiasmo con cui è stata accolta la recensione negativa di The Guardian sul Fico. Quell’articolo ruota tutto attorno alla mancata “autenticità” del parco bolognese e non dice quasi nulla sui dispositivi ideologici ed economici messi in campo da Farinetti. Ecco, io credo che dovremmo rifuggire da queste fascinazioni.

Perché, a tuo parere, queste forme di capitalismo avanzato e falsamente “illuminato” trovano oggi proprio nell’alimentazione un ambito di sviluppo così importante? Forse, c’è così tanto interesse nel settore perché è possibile sfruttare senza bisogno di delocalizzare la produzione?

Secondo me va analizzato l’impasto tra turismo, cibo ed export di prodotti agroalimentari e di design. L’idea è quella di “specializzare” l’Italia facendone un distretto che produca e venda questi beni per i nuovi ricchi dei paesi emergenti o per i soliti ricchi dei paesi già affermati. Un’idea che potrebbe conciliare crescita economica con salari ridotti all’osso, visto che i consumatori dei beni che si producono sono cercati altrove e quindi non c’è alcun bisogno di un solido mercato interno. Il turismo, poi, produce salari bassissimi e ricchezza per pochi ovunque nel mondo. O da subito, oppure in seguito a processi di concentrazione. Si veda, qui da noi, l’attuale contrasto politico a chi affitta una camera su una piattaforma, operazione che diventerà sempre più onerosa fiscalmente e normativamente. Non voglio qui difendere Airbnb, ovviamente, che ha un ruolo gentrificante. Voglio solo dire che l’illusione dei piccolissimi operatori di poter raccogliere le briciole dell’abbuffata turistica è un’illusione di breve durata: quel modello chiama la concentrazione. E infatti si vanno costruendo, di nuovo, grandi alberghi. Anche presso il Fico se ne prepara uno.

Tra gli obiettivi della Rete Genuino Clandestino, di cui fai parte, c’è quello di costruire un’alleanza fra movimenti urbani, singoli cittadini e movimenti rurali, che sappia riconnettere città e campagna superando le categorie di produttore e consumatore. Paradossalmente in spazi come Fico e Eataly la connessione tra città e campagna avviene travestendo il contadino da attore di una ridicola farsa e trasformando il cittadino in un consumatore di divertimento. I rapporti di potere e dominio sono intatti, il paternalismo perbenista di chi può comprare viene rafforzato e possiamo uscire dal supermercato con la soddisfazione di aver fatto del bene a qualche contadino oltre che alla nostra salute. Da dove partire per destrutturare tutto questo?

C’è anche di peggio: la sussunzione del mercato contadino ai processi di gentrificazione; l’innestarsi dell’ideologia del “fitness” su quella del cibo sano, a cui tu accennavi nella prima domanda. Non so da dove si debba partire, certamente continuare a condividere analisi è un primo passo. Poi non bisogna smettere di studiare i meccanismi della cooptazione, la finta partecipazione calata dall’alto, le associazioni di cittadini per il “bene comune” che hanno funzione gentrificante, eccetera. In tutte queste situazioni la presenza del contadino, come garanzia di “autenticità”, è sempre ricercatissima: sta alle organizzazioni contadine sottrarsi nel modo più doloroso possibile per i furbetti, o troppo ingenui, interlocutori. Ci vuole una bella dose di militanza da parte delle organizzazioni contadine. Stare nelle periferie in modo diametralmente opposto a quello in cui ci stanno i gentrificatori, creare meccanismi che costringano a tenere un rapporto con le classi popolari, quelle che andrebbero al Lidl, insomma. Una roba difficilissima, lo so, ma su cui è forse possibile trovare alleanze.

http://www.dinamopress.it/news/fico-dove-il-ruolo-del-pubblico-e-compiacere-il-capitale-privato

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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