Marco Piccinelli
titolo originario del post, pubblicato sul blog del Partito Umanista di Roma, era «senza sinistra». Era ovviamente provocatorio e chi scrive non vuole procedere con lo scandagliare i temi che possono essere considerati come configgenti o “divisivi” nell’ambito della dialettica e del confronto politico. «Senza sinistra» è una provocazione che rientra nell’affermazione «alle politiche non ci sarà una lista di sinistra», che pure in realtà c’è.
Procediamo per gradi.
Dire «senza sinistra» è affermare come, ancora una volta, in una precisa area politica, si sia guardato alla circostanzialità del momento elettorale senza delineare una proposta di lungo periodo: così facendo le forze vengono sempre meno anziché confluire all’interno di un progetto comune, vengono messe a servizio di un obiettivo molto difficile e a cui molto probabilmente non farà seguito un risultato.
Per dirla con le parole di Olivier Turquet, coordinatore italiano di «Pressenza», in un editoriale dedicato alle elezioni del 2014: «A queste elezioni non si presenta una sigla che sogno da tempo: la Sinistra Umanista Nonviolenta; la sigla suona bene SUN che fa pensare al sole in inglese. Perché non servono molte parole (recita il Documento Umanista) per definire le destre come strumenti dell’antiumanesimo; per cui possiamo essere critici con quel che ha fatto la sinistra storica ma siamo comunque di sinistra e ci interroghiamo sugli errori storici della sinistra che sono, a mio avviso, sostanzialmente due: non essere stata chiaramente umanista e nonviolenta. La preoccupazione per l’Essere Umano rispetto alle infinite dittature della razza, della nazionalità, del genere, della preferenza sessuale, della condizione economica, del suo pensiero ecc e la metodologia di cambiamento basata sulla nonviolenza attiva sono i due elementi centrali che hanno messo in crisi l’azione politica della sinistra e che vediamo ancora ben presenti, per esempio, nei settarismi che ne hanno portato alla polverizzazione».
Sforzarsi di trovare punti di convergenza fra associazioni, partiti e reti sociali non è facile, è un lavoro (e un lavorìo) che va fatto attentamente e senza infingimenti di sorta, né tantomeno con interessi personali o di parte che possano minare il progetto stesso.
L’esempio del Cile e del Fronte Ampio (Frente Amplio) è un esempio a cui tendere ma anche a cui lavorare nel corso degli anni: l’imminenza elettorale appiattisce e distoglie, storce e ottunde il dibattito e l’incontro delle culture che vogliono convergere per un comune fine.
I punti che legano il Partito Umanista a Potere al Popolo, almeno per quel che riguarda il breve periodo, sono anche più d’uno e possono superare in gran numero le divergenze, tuttavia è sulla strategia del lungo periodo che le differenze si acuiscono e le questioni non sono proprio secondarie: una per tutte è la posizione riguardo l’UE (e i temi che essa porta con sé).
UE sì/UE no
Il problema va affrontato seriamente e non rappresenta una questione inutile o di second’ordine: è il problema dei problemi, dibattito che si dovrebbe accendere e sintesi che si dovrebbe trarre. All’interno di Potere al Popolo (abbreviata maledettamente PaP, PotPop e via dicendo) la questione UE non è trattata con l’attenzione che merita, anzi. Recentemente si incontreranno al Parlamento Europeo la Candidata Presidente del Consiglio dei Ministri di Potere al Popolo e l’europarlamentare di Rifondazione, Eleonora Forenza, col fine di presentare il progetto elettorale al GUE (gruppo parlamentare della sinistra radicale). Uno dei temi forti dell’iniziativa è il riferimento alle esperienze della France Insoumise e Izquierda Unida/Podemos, con riferimento al progetto della Sinistra Europea.
La confusione è evidente e mettere insieme progetti chiaramente “euro-critici” come la France Insoumise assieme alla Sinistra Europea e al GUE, chiaramente pro-UE e convinti della sua riformabilità dall’interno, è sbagliare ideologicamente.
In una fase come quella attuale, in cui si fa di tutto per bollare come “ideologico” qualsiasi dibattito e affibbiare un carattere negativo a questo termine, è bene riprendere e valorizzare il termine ideologia: altro non è che la propria visione del mondo e tutto quel che ne consegue.
In una recente intervista rilasciata all’agenzia internazionale «Pressenza», il segretario nazionale Tony Manigrasso ha dichiarato come il PU sia «contro questa Unione Europea a base neoliberista e crediamo che nella gabbia in cui ci ritroviamo sia praticamente impossibile, per via dei vincoli attuali, cambiare l’Unione Europea dall’interno; se davvero il M5S proponesse un referendum impositivo sull’ItalExit, cosa che tra l’altro dubito che lo faccia veramente, non possiamo che essere favorevoli a votare per il SI all’ItalExit».
Contrapporre «l’Europa dei popoli», ideale e utopica nella fase attuale, all’Europa del Capitale finanziario è una necessità sempre più impellente da analizzare e da comprendere a 360°: dirsi a favore dell’Europa dei popoli significa porsi contro i trattati, la dittatura del Capitale, la presenza e l’ingerenza della NATO, l’autodeterminazione dei popoli che sia reale (e non fittizia e strumentale per pagare qualche tassa in meno come accade in Lombardia o in Veneto).
È chiaro, dunque, che l’ambiguità sull’UE non può essere accantonata perché “ci sono affari più importanti da sbrigare”, come la presentazione della lista.
Il “lungo periodo” è l’unico elemento che possa coadiuvare la formazione di una vera organicità, di una vera concentrazione a sinistra – che sia anticapitalista e non semplicemente antiliberista – che possa porsi l’obiettivo di una unione, pur nelle divergenze dei diversi attori che la andranno a comporre, con un unico obiettivo: essere forza reale. Una forza reale che sappia con certezza di essere minoranza ma non minoritaria: trattare i temi dell’anticapitalismo, della critica all’UE (senza agitare scalpi o slogan vuoti), del pacifismo e dell’antimperialismo portano con sé la consapevolezza d’essere minoranza all’interno del panorama politico italiano.
Il minoritarismo, infatti, è altra cosa: è la presa d’atto di voler parlare ad una piccola cerchia di persone, o anche settarismo come scriveva quattro anni fa Olivier Turquet. La minoranza, attraverso un lavoro (torniamo al precedente punto, evidentemente) duraturo nel corso degli anni, può mutare il suo essere: diventare “maggioranza” o, nel “peggiore dei casi”, ingrossare le sue fila e creare massa critica, coscienza civica e formare uomini e donne, ragazze e ragazzi, cittadine e cittadini in persone che avranno acquisito gli elementi necessari per la sopravvivenza in un sistema antiumano come quello in cui viviamo.
Il compito del PU
Prendere coscienza della minoranza e non del minoritarismo è un passo necessario per il PU in Italia, tuttavia questo non significa mero “settarismo” a cui si deve rispondere con maggiore chiusura. Molti movimenti, rappresentati in Italia da sezioni organizzate in partiti e associazioni, si trovano di fronte allo stesso dilemma del PU: dare indicazione di voto, o non dare indicazione di voto; appoggiare o no questa o quella lista che si sta presentando alle elezioni politiche del 4 marzo?
Il compito del PU, in questa fase di transizione, è cercare di essere il trait d’union fra le associazioni, le reti sociali e i partiti che non ce la faranno ad essere presenti né sulla scheda elettorale nazionale, né su quella per le elezioni Regionali.
Un’unione di minoranze? No, piuttosto un dialogo fra pari: fra Partito Pirata, i “delusi del Brancaccio”, ATTAC Italia, Sbilanciamoci e tutta una pletora di elettori che non avrà più rappresentanza il giorno dopo aver votato e il giorno prima in cui s’è deciso per l’appoggio ad una lista come ultima spiaggia. Il PU può “essere partito” contro un “avere partito” generico e inconsistente: essere partito significa assumersi il compito di essere il collante necessario, come detto prima, e iniziare un percorso adesso per le prossime elezioni: non quelle del 4 marzo, ma per le prossime amministrative e le prossime elezioni nazionali. Porre la questione del 99% contro l’1%: passata di moda per qualche media nazionale ma non per gli umanisti, gli anticapitalisti, i pacifisti, per la sinistra e iniziare un percorso di condivisione e collaborazione arrivando – perché no? – alla formazione di un “governo ombra sociale”.

 

È uno gnommero di concause, come diceva Gadda: un gomitolo intricato fino all’inverosimile, ma necessario da sbrogliare.

https://www.pressenza.com/it/2018/01/le-elezioni-il-partito-umanista-la-lista-potere-al-popolo-una-proposta-di-dibattito/

Di Francesco Cecchini

Nato a Roma . Compie studi classici, possiede un diploma tecnico. Frequenta sociologia a Trento ed Urbanistica a Treviso. Non si laurea perché impegnato in militanza politica, prima nel Manifesto e poi in Lotta Continua, fino al suo scioglimento. Nel 1978 abbandona la militanza attva e decide di lavorare e vivere all’estero, ma non cambia le idee. Dal 2012 scrive. La sua esperienza di aver lavorato e vissuto in molti paesi e città del mondo, Aleppo, Baghdad, Lagos, Buenos Aires, Boston, Algeri, Santiago del Cile, Tangeri e Parigi è alla base di un progetto di scrittura. Una trilogia di romanzi ambientati Bombay, Algeri e Lagos. L’ oggetto della trilogia è la violenza, il crimine e la difficoltà di vivere nelle metropoli. Ha pubblicato con Nuova Ipsa il suo primo romanzo, Rosso Bombay. Ha scritto anche una raccolta di racconti, Vivere Altrove, pubblicata da Ventura Edizioni Traduce dalle lingue, spagnolo, francese, inglese e brasiliano che conosce come esercizio di scrittura. Collabora con Ancora Fischia IL Vento. Vive nel Nord Est.

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