C’è chi non vota come protesta verso il sistema, chi non vota perché non trova un partito votabile, c’è chi è disinteressato, chi è schifato, chi è distaccato, chi è sconvolto. Una certa “retorica elettoralista” che rifiuta l’astensione, in realtà ci dice: “vota e poi resta in silenzio per cinque anni!” Insistendo solo sul voto tuttavia si alimenta la tendenza a privare i cittadini di una coscienza politica del loro quotidiano.

di Nicola Cucchi

Del resto la campagna elettorale a cui stiamo assistendo è una rappresentazione perfetta dell’esclusione della politica causata dalla colonizzazione aziendalista di tutti gli ambiti sociali. Il voto non può essere l’unico momento in cui si prende posizione sulla collettività, soprattutto se la “vera rappresentanza” è tutta fuori dalle istituzioni. La difesa degli interessi collettivi, fattore di appartenenza primario nei decenni passati, ha ceduto il posto al sogno di affermazione individuale offerto dalle aziende, oggi uniche in grado di creare consenso di massa.

 

Un voto inutile?

Ricordo con sgomento i giorni che seguirono le elezioni politiche del 2013. Gli elettori fecero uscire un “parlamento impiccato”, senza una maggioranza in grado di dare la fiducia in entrambe le camere. Il premio di maggioranza del Porcellum-Calderoli era entrato in funzione per i deputati, ma lasciava nel caos i senatori. Questa volta siamo molto più tranquilli. Con la nuova legge elettorale sappiamo già che il parlamento non darà una maggioranza.

Per i partiti in testa nei sondaggi non sembra più un problema non avere una coalizione vincente dopo il voto, anche se questo significherà sostenere un “governo di scopo” che cambi la legge elettorale per tornare a votare prima possibile. Dopo vent’anni di insistenza sulla governabilità forse prenderemo atto di un pluralismo politico irriducibile dai meccanismi maggioritari delle leggi elettorali.

Addirittura in questo caso, dopo quasi venticinque anni di bipolarismo – che ci aveva abituato a conoscere gli schieramenti prima delle elezioni – ritorniamo all’incognita delle trattative dopo il voto. Le principali forze in campo ci chiedono una X sulla scheda promettendo risultati mirabolanti, ma sostanzialmente sperano di contare di più nelle trattative che seguiranno al 4 marzo.

In una fase del genere tornerà per forza di cose protagonista il Presidente della Repubblica, quindi, con tutta probabilità siamo di fronte a un voto interlocutorio. Anche per questo, i veri protagonisti di queste elezioni potrebbero essere gli astenuti.

 

Chi ci rappresenta (davvero): l’egemonia politica delle aziende

Con un’alta percentuale di astenuti – si rischia di superare il 40% – sentiremo ripetere da giornalisti/opinionisti che “la rappresentanza è in crisi”, ma si sbagliano. Non c’è dubbio che la fiducia nelle istituzioni e nei partiti sia al minimo storico, ma questa tendenza ha una causa profonda: viviamo in una società di individui iper-rappresentati fuori dalla sfera politica.

I media ci rappresentano senza sosta. Siamo rappresentati continuamente nei talk show, nei film, nelle serie tv, ma anche nei video virali su youtube, nei meme sui social e in generale nella pubblicità di ogni genere. Ci dicono come vestirci, cosa mangiare, come muoverci e comportarci per “essere riconosciuti” e trovare una “collocazione sociale”. Identificandoci nei beni che consumiamo dimostriamo di non avere bisogno della politica come esperienza collettiva, come confronto che alimenta un senso d’appartenenza.

L’egemonia esercitata dai marchi riempie tutta la nostra immaginazione, ci frammenta e ci individualizza al punto da non indurci a cercare appartenenze profonde, non direttamente legate a immagini spendibili sul mercato. Viviamo un’idolatria della competizione in cui prevalere sull’altro è un momento essenziale per avere la certezza di esistere, in cui si fa fatica a percepire un interesse collettivo, un bene comune. Inoltre, con il nuovo “web 2.0” non ci limitiamo a subire la rappresentazione, ma ci auto-rappresentiamo quotidianamente.

Diventando manager della nostra reputazione, offriamo alle imprese elementi sempre più precisi per classificare, categorizzare e modellare l’offerta. Con la c.d. “profilazione” il mercato acquisisce un’infallibilità assoluta perché sono gli stessi utenti ad offrire gli elementi caratteristici dei propri gusti.

Il consenso dunque non è scomparso, si è spostato su un altro livello che non ha nulla a che fare con il parlamento e la democrazia. Le istituzioni e quello che resta delle organizzazioni dei subalterni sono del tutto marginalizzate, mentre altre si sono fatte colonizzare dall’immaginario costruito dalle aziende per l’individuo lavoratore e consumatore.

In questa direzione, si inserisce l’affermazione del “partito-azienda”, in cui il presidente è anche proprietario dell’organizzazione, e i dirigenti diventano dipendenti, nominati “per acclamazione” e responsabili di portare avanti la linea stabilita dall’alto sulla base dei sondaggi senza possibilità di dissenso.  Curiosamente il linguaggio populista di Forza Italia nel ’94 e dei 5 stelle oggi si coniuga perfettamente con questa forma tecnocratica di gestione del consenso da parte di agenzie pubblicitarie che svuota completamente l’organizzazione di qualsiasi democrazia interna; un processo che non prevede elezione di corpi intermedi, congressi, scelta delle regole interne, insomma l’apertura di un conflitto interno sulle scelte da assumere, perché non c’è tempo per la democrazia.

 

I “candidati in cerca d’autore” e la politica nel quotidiano

La campagna elettorale diventata una maxi televendita si inserisce per forza di cose in questo quadro. Chi si candida ad entrare in parlamento deve sapersi muovere in un universo massmediatico che chiede personaggi forti, governato da logiche di ascolto che nulla hanno a che fare con la democrazia. La sfida è diventata ottenere il consenso proponendosi come “prodotto simbolico” in cui il cittadino possa identificarsi, in un mercato dove la paura è il sentimento dominante. Chi offre una risposta verosimile e coinvolgente all’incertezza sul domani vince la contesa.

La vera domanda politica è: esiste un’altra dimensione oltre al mercato?

A mio avviso, facciamo sempre più fatica ad essere altro che consumatori e lavoratori.

Tuttavia, in una fase in cui la sfera economica ha preso il sopravvento su tutto il resto, bisogna spostare la battaglia politica e culturale su quel terreno. Sensibilizzare il consumo, per esempio, potrebbe essere un elemento in grado di ricreare le basi per una politicizzazione diffusa delle condizioni di lavoro e quindi della società. Capire, insomma, che votiamo ogni giorno nelle scelte quotidiane può essere una via per focalizzarci su tematiche concrete che coinvolgono vari strati sociali anche fuori dai confini nazionali.

Solo ridando consapevolezza politica al quotidiano si può uscire dalla subalternità culturale in cui siamo ridotti e costruire appartenenze forti e durature per rappresentarci fuori dalle “logiche competitive” di mercato. Per riattivare percorsi democratici bisogna smettere di considerare il voto come momento unico e irriducibile, al massimo può essere il punto d’arrivo (o di partenza?) di percorsi partecipativi alimentati nel tempo. Il punto è uscire dalla cappa mediatica che ci immobilizza, per ritrovare il piacere di sentirci parte di un percorso a lungo termine; non per consenso personale o per carriera, ma per sentirci protagonisti di una storia ancora da scrivere.

 

http://www.sinistraineuropa.it/approfondimenti/la-repubblica-degli-astenuti-la-rappresentanza-in-un-mondo-aziendalista/

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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