Dovrebbe rassicurarmi la frase del miliardario americano Mark Zuckerberg: “Da ora in poi saremo i poliziotti del sistema”? Un po’ è metafora e, proprio per questo, un po’ è verità. Magari non assoluta, ma sicuramente, dopo la falla sul controllo dei dati da parte di aziende esterne al colosso fondato dal giovane sviluppatore di programmi per reti sociali, per risalire in borsa occorre qualche dichiarazione forte e, infatti, a seguito di queste promesse fatte davanti al Senato degli Stati Uniti, il titolo vola con un segno positivo di oltre il 4%.
Quella grande famiglia di interazione antisociale, pur essendo dichiaratamente “social”, che ha portato molte e molti di noi ad entrare in un circuito di alienazione diventato imprescindibile prima ancora di alienarci con una necessità che prima non sentivamo come tale, ora promette di assumere 20.000 persone per verificare meglio la protezione dei dati dei miliardi di utenti che vi accedono.
“Poliziotti del sistema”. Così Zuckerberg ha definito la nuova linea politico-amministrativa del suo gruppo: “Ho sbagliato”, ha ammesso e ha continuato affermando che occorre rivedere gli standard di protezione in un “capitalismo di sorveglianza” come quello in cui viviamo.
Non è una critica al sistema, semmai è la conferma che ci si deve adeguare alle esigenze del mercato e che Facebook rappresenta un asse portante di questo adeguamento, così come lo sono molti altri “social network” che plasticamente mostrano la loro funzione: apparire per essere. Apparire il massimo della socialità per spegnerla nel concreto dei rapporti quotidiani.
Lo sviluppo della rete Internet è stato così veloce in questi anni da coinvolgere i rami della telefonia, della televisione e persino della comunicazione radiofonica. Non c’è nessuna emittente che non osi sottrarsi – pena una esclusione da un circuito di virtuosismi legati alle moderne tecnologie – alle trasmissioni in “streaming” o a invitare i suoi ascoltatori a scaricare i “podcast” per ascoltare in differita sulle apposite “app” quanto andato in onda nella cara, vecchia diretta.
Ammetto che è tutto molto affascinante e anche utile. Io amo la radio: la ascolto a casa, a volte anche mentre scrivo o spulcio le rassegne stampa proprio qui, su Internet, e capita che perda qualche puntata ad esempio di “Senti che storia” (ve la consiglio e perciò la “linko” qui), una trasmissione di Radio 2 condotta da Paolo Calabresi e Sabrina Nobile.
E’ un programma che amo molto e, quindi, sul mio “tablet” ho scaricato la “app” di Rai Radio Play così da seguire in differita le puntate che a volte non riesco a seguire al sabato o alla domenica.
Il sistema, dunque, migliora certamente molti aspetti della nostra fruizione di dati, informazioni, dall’ascolto alla ricerca, dall’approfondimento alla semplice conoscenza per curiosità.
Le reti sociali e l’intera rete Internet sono una miniera di informazioni e di false informazioni: le cosiddette “fake news”, le notizie false.
Quindi le trappole sono sempre dietro l’angolo. E a volte nelle trappole ci cade chi ha creato un grande fenomeno sociale come Facebook. Ancora una volta Saturno prova a divorare i suoi figli, ma va riconosciuto che i figli, se vogliono rispettare le leggi del mondo reale, devono piegarsi a dei compromessi, presentarsi davanti ad una commissione del Senato americano e fare ammenda.
Detto questo, tutto torna nel pericoloso circolo vizioso che ci avvolge e che ci rende indispensabile Whatsapp, Twitter, Facebook, Instagram, eccetera, eccetera.
Non so se la vicenda della fuga dei dati ci rivela qualcosa di più rispetto a ciò che rappresenta in sé e per sé: di sicuro la visione di documentari e film come “Snowden” ci ha già detto da tempo che nessun dato personale è veramente al sicuro. Il tuo “client” di posta, quando ti chiede di proteggere la tua sicurezza, in quel preciso momento – ed anche prima – ha già tutte le tue informazioni e nessuno di noi, piccoli utenti forse ingenui e forse troppo fiduciosi, ha gli strumenti tecnici necessari per verificare se la protezione dei dati sia realmente tale.
Allora esistono due comportamenti possibili da adottare: numero 1, cancellarsi da tutte le piattaforme sociali, escludersi dalla rete “social” presente nella rete Internet, credendo così di essersi sottratti al controllo del nuovo “grande fratello” (o dei tanti “grandi fratelli”…), oppure, numero 2, non nascondere nulla di sé stessi, dei propri dati: la nostra vita privata può sfuggire al controllo di quel “capitalismo di sorveglianza che controlla i controllori, può essere privata nel momento in cui la manteniamo tale.
Sta a noi decidere cosa far conoscere al sistema internettiano, alla grande rete delle comunicazioni. Si potrebbe anche barare e farle conoscere aspetti falsi delle nostre vite: si potrebbe provare a prendere in giro il sistema, visto che il sistema è grande fagocitatore cannibale di dati di ogni tipo. Non c’è filtro, non c’è selezione: tutto viene acquisito, categorizzato, incasellato e tenuto lì, pronto per essere utilizzato con un unico scopo: il profitto. Sempre e comunque il profitto.
La matematica è stata piegata a questi fini: algoritmi precisissimi decretano quale pubblicità deve comparire sulle pagine dei siti che visitiamo. Se per caso cerchiamo su Amazon un orologio da acquistare, immediatamente su You Tube e su molti grandi siti, si attiverà il meccanismo di ripetizione di suggerimenti affini alle nostre ricerche.
Ciò che conta è che se ne sia consapevoli, che si sappia ciò che viviamo. Che se ne abbia piena coscienza. E’ la miglior difesa: saperlo vuol dire tanto provare a gestirlo quanto potersene beatamente infischiare.

 

http://www.lasinistraquotidiana.it/wordpress/i-poliziotti-di-zuckerberg-e-il-menefreghismo-consapevole-nostro/

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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