Di lavoro si continua a morire ma il sindacato non va oltre le generiche dichiarazioni sulla sicurezza. Poi la vita continua. Anzi, continua la morte

di Checchino Antonini*

Di lavoro si continua a crepare. Giovedi e venerdì, 5 e 6 aprile, “l’Assemblea dei 500 della FIOM” ha approvato, a maggioranza, un ordine del giorno sulla sicurezza e le morti sul lavoro. «Noi non lo abbiamo votato – dice a Popoff, Eliana Como, portavoce della minoranza interna, l’area Il sindacato è un’altra cosa – perché si chiedeva solo una generica mobilitazione e non uno sciopero generale nazionale di tutte le categorie. Per porre fine a questo intollerabile stillicidio di lavoratori è necessario mettere in campo tutta la nostra forza e determinazione».

Uno stillicidio di omicidi bianchi difficile da raccontare. Giuseppe Greco, un 51enne di Isola Capo Rizzuto, e Kiriac Dragos Petru, un romeno di 35 anni, residente a Rocca di Neto, sono rimasti uccisi dal crollo di un vecchio muro di contenimento in un cantiere a Crotone, in viale Magna Grecia, il lungomare che porta alla zona archeologica di Capo Colonna. Gravissimo un terzo collega. Sono morti il giorno di Pasqua per l’esplosione di un’autoclave in un serbatoio, Giuseppe Legnani di Casirate d’Adda e Giambattista Gatti di Treviglio, due figli a testa, operai della Ecb Company di Treviglio, nel Bergamasco. Erano arrivati in azienda dopo l’allarme lanciato da alcuni cittadini che avevano sentito un cattivo odore. Per alcune ore, dopo l’esplosione, l’accesso all’interno dell’azienda è stato interdetto per la cospicua presenza di anidride carbonica. Ecb, dal 1966, si occupa della lavorazione di sottoprodotti della macellazione avicola per la produzione di alimenti per animali da compagnia e lo scorso anno è stata acquisita dal gruppo tedesco Saria. All’esterno dello stabilimento, presidiato dalle forze dell’ordine, un delegato sindacale ha lasciato dei fiori.

La polveriera di Livorno Nord

Dicono, invece, che abbia un “gradevole odore fruttato” l’acetato di etile, l’ultima puzza o profumo sentita da Lorenzo e Nunzio prima dell’esplosione del 28 marzo. Perché questo solvente per vernici e resine, è un liquido volatile, molto infiammabile, esplodente, che basta solo una scintilla e boom. Canale industriale del Porto di Livorno, una delle concentrazioni più grandi di impianti ad alto rischio. Darsene, una dopo l’altra, asservite alle operazioni di chimichiere, petroliere, il grande deposito per il Gpl, materiali stoccati nei depositi costieri. 211 serbatoi tra la Via Aurelia e il Tirreno e, dodici miglia al largo, la piattaforma Off Shore con la sua ragnatela di condotte sottomarine in una zona che doveva servire alla protezione delle balene. Una città di torri abitate da sostanze tossiche, esplosive, cancerogene, e 1500 lavoratori. E’ Livorno Nord, “area a elevato rischio di incidente industriale rilevante”, parco industriale spuntato negli anni ’50. Come quelli intorno a Genova, Ravenna, Marghera, Trecate (Novara), Napoli e Filago (Bergamo). E’ qui che sono stati uccisi due operai, Lorenzo Mazzoni di 25 anni, e Nunzio Viola di 53, durante una «routinaria operazione di pulizia di un serbatoio vuoto». Lavoravano nei Cantieri Neri per conto di Labromare (entrambe aziende dei Fratelli Neri) che cura lo smaltimento dei rifiuti del porto. L’onda d’urto, per questa volta, è stata contenuta dalle mura di cemento armato che reggono la cisterna.

E il giorno appresso – mentre Livorno si divideva in tre: la gente straziata dal dolore e dalla rabbia, il cordoglio degli ipocriti e la routine degli indifferenti – un operaio di 56 anni è rimasto folgorato a Bologna e un altro è morto in provincia di Firenze. Aveva 52 anni, si chiamava Nunzio Industria ed era salito da Napoli per lavorare a un appalto di Vodafone, proprietaria del traliccio da cui è precipitato. Carmine Cerullo era un esperto caposquadra di una ditta torinese che ha in appalto interventi di manutenzione elettrica per le Ferrovie, è morto all’una e quaranta della notte mentre sistemava, su un carrello elevatore, i pannelli di un traliccio dell’Alta Velocità Bologna-Venezia.

Il rituale prevede l’apertura di un fascicolo per omicidio colposo, per ora contro ignoti. Scrivo i loro nomi per lasciare una traccia perché di loro si ricorderanno solo i compagni di lavoro e i familiari, perché gli omicidi “bianchi” provocano assuefazione in un’opinione pubblica lacerata dalla crisi e distratta da altre paure fabbricate ad arte. Dall’inizio dell’anno sono già 154 in tutta Italia mentre l’Inail non ha ancora finito i conti del 2017, il bilancio provvisorio parla di 1029, + 1,1% rispetto all’anno precedente, e 119 sono stranieri, i più sfruttati di tutti. Tornando a Livorno, negli ultimi 30 anni sono morti in venti sulle banchine del porto, nelle stive o nei cantieri. Dal gennaio ’87 che morirono tre operai della Italso, saltata in aria. Prima di restare in trappola erano riusciti a chiudere le valvole dei depositi sotterranei evitando una strage più immane. Fino a Nunzio e Lorenzo: chi precipitato, chi schiacciato da un vagone o da un muletto o da un carrello, tranciato da un’elica, colpito da un tubo di 16 metri, incastrato tra i fusti, comunque seminando orfani e vedove.

Sì, c’è il lutto cittadino, il gonfalone del Comune, la fascia nera al braccio dei calciatori della squadra locale, il cordoglio delle aziende che si mettono a disposizione degli inquirenti, copione che si ripete anche a Livorno, ma poi la vita continua. Anzi, continua la morte, anche quella invisibile delle morti “in itinere”, di chi crepa mentre va o viene dal lavoro, anche quella lenta di chi è esposto all’amianto o ad altre sostanze tossiche. E come definire, se non morte di lavoro, il suicidio di di Ivan Simion, carpentiere di Orbassano che si è impiccato due giorni dopo la strage di Livorno perché da mesi non veniva pagato dalla sua azienda?

Morti bianche e tagli alla sanità

Scrivo i nomi delle vittime. Impossibile fare lo stesso per i politici che esternano in occasioni come queste anche se da decenni hanno responsabilità di governo, le bandiere del Pd si sono viste nella fiaccolata di Livorno, giurano e spergiurano i governatori leghisti e gli altri alfieri della deregulation, anche ex ministri e prossimi ministri. Uno tra tutti: «Mattanza frutto di lassismo», commenta a caldo il Governatore Rossi, di quel pezzo di Leu che viene dal Pd. Ma è proprio lui ad aver operato tagli draconiani alla sanità con un accorpamento delle Asl, una sorta di deterritorializzazione, che ha reso complicatissimo organizzare e programmare la prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro. Il Piano sanitario prevede che il 5% della spesa totale venga destinato alla prevenzione ma non è mai stato attivato. Né qui, né altrove, in Italia. Il Dipartimento prevenzione ha perso i contatti con le amministrazioni comunali e negli ultimi 10 anni, il Servizio di Livorno ha subito una costante riduzione del numero di operatori dedicati alla vigilanza, è nella media nazionale con una riduzione del 50% del personale. Numeri e dati che conoscono in tanti a Livorno ma te li dicono quasi sottovoce perché i Fratelli Neri sono una potenza e la Asl Toscana Nord Ovest ha vietato ai suoi dipendenti di rilasciare interviste, altrimenti c’è il rischio di fare la fine di Riccardo Antonini, ferroviere licenziato da Moretti quando s’è messo a disposizione dei familiari delle vittime della strage di Viareggio, il disastro ferroviario più grave del dopoguerra, con cui da allora gira l’Italia e con loro era alla fiaccolata di Livorno. Per la Cassazione significa essere «concreto antagonista» dell’azienda. Da quando sta in pensione, gli scrivono i compagni di lavoro e anche i delegati pregandolo di fare lui le denunce sulla mancata sicurezza perché loro, ancora in servizio, rischierebbero troppo.

Paradossi tragici: «L’Italia era all’avanguardia quando, nel 1978, ha affidato al servizio sanitario nazionale le competenze in materia di salute e sicurezza dei lavoratori perché è una questione di pubblico interesse – spiega Diego Alhaique, a lungo direttore di 2087, la rivista Cgil su salute e sicurezza – ma è l’unico paese europeo senza una strategia nazionale». Proprio da queste colonne, Raffaele Guariniello ha rilanciato la proposta di una Procura nazionale ad hoc perché ora solo il 3% dei casi diventa un processo con tempi biblici. «Ve bene ma non basta – risponde Alhaique – perché avrebbe solo una funzione di repressione. Serve anche un’agenzia pubblica Dal ’94 i lavoratori eleggono gli Rls ma il sindacato non li organizza settore per settore, ha scelto di non farlo. Si parla di sicurezza solo quando c’è un grande incidente in una grande fabbrica di una grande città. Il testo unico, infatti, è nato sull’onda dello sdegno per la strage alla ThyssenKrupp. Se accadono catastrofi in piccole fabbriche di provincia non c’è la stessa attenzione. Invece i lavoratori dovrebbero organizzarsi ogni giorno, non solo dopo una tragedia. Ai datori di lavoro spetta la valutazione del rischio e la formazione ma i lavoratori dovrebbero poter avere la capacità autonoma di valutazione e contrattazione per eliminare o ridurre al minimo i rischi. C’è bisogno di vincoli, garanzie, diritti perché nella crisi e dentro forme di lavoro impalpabile l’ultima cosa a cui si pensa sono i rischi. Spesso non viene garantita la minima formazione per lavorare in sicurezza. Le Asl hanno sempre meno soldi e i proventi delle sanzioni ai datori di lavoro dovrebbero essere riutilizzati per la prevenzione ma succede solo in poche regioni».

E’ il jobs act che uccide più di tutto

Prima della riforma sanitaria, della 626, dell’attuale legge 81 furono proprio i lavoratori a imporre l’attenzione sulla nocività del lavoro. «Nel 1972 – ricorda ancora Alhaique – tremila lavoratori affollarono per tre giorni un teatro di Rimini che poteva contenere la metà di quelle persone. Da quell’assemblea nazionale nacque un centro di documentazione e ricerca che funzionò grazie alla Flm fino al 1985. Ora quel materiale è appena stato rimesso in rete dall’Inail». Uccide la precarietà, uccidono macchinari vecchi, uccidono i truffatori che intascano soldi per finti corsi di formazione, come ha denunciato la Asl di Milano, uccide la polverizzazione del sistema produttivo in microaziende refrattarie alle regole e anche la catena dei subappalti è un serial killer di prima grandezza.

Stefano Santini, della segreteria Filctem-Cgil labronica con la delega alla sicurezza, conosce le procedure perché ha lavorato in fabbrica: c’è il foglio di lavoro che determina cosa bisogna fare e cosa non si deve fare, le sorgenti di rischio e le precauzioni che servono, protezioni, strumentazioni. Il Dl 81/08 definisce ruoli di datori, medici, lavoratori e Rls. Erano stati formati e soprattutto correttamente informati sulla pericolosità di quella paticolare sostanza quei lavoratori? Era specifico e adatto l’esplosimetro che avevano in dotazione, ossia era capace di monitorare la concentrazione di acetato di etile in grado di provocare l’esplosione? Perché nelle cisterne ci devono andare le persone e non i robot? Domande che dalle darsene si rincorrono nelle sedi sindacali in attesa che l’inchiesta faccia il suo corso. Qualcuno già parla di una scintilla innescata da un cellulare e ipotizza l’errore umano. «I sistemi di sicurezza sono tali quando prevengono l’errore umano», chiarisce Maurizio Brotini, segretario della Cgil Toscana.

Ma intanto si può, si deve, scrivere che esiste una circolare, la 9 del 2014, che dispone comunicazioni quotidiane sull’avviamento al lavoro, sui carichi di lavoro e gli straordinari. «Ma è in gran parte disattesa dalle aziende e l’authority non ha strumenti per esercitare le proprie funzioni», dice Valerio Melotti, coordinatore dell’area Democrazia e lavoro della Cgil livornese: «Molti sono stati gli infortuni mortali ma la sensazione è quella di rassegnazione, in questi anni non c’è stato nessun intervento concreto per migliorare le condizioni di lavoro». I volumi di lavoro continuano a crescere ma non i livelli occupazionali, il che si traduce con un aumento dei carichi di lavoro per lavoratori e lavoratrici. «Dal 2008 manca il corrispettivo di ore di un milione di posti di lavoro – conferma Brotini – aumentano i ritmi, si frantuma il ciclo della produzione nella catena del subappalto. Diminuiscono le denunce, per paura, aumentano i morti. Il jobs act ha diminuito il controllo operaio su orario, salario e anche sulla sicurezza».

All’interno di ogni area portuale l’utilizzo del lavoro straordinario è ormai diventato ordinario senza controllo alcuno. «Il tasto debole della catena – spiega ancora Santini a Left – è proprio il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (Rls), un lavoratore eletto che, specialmente dopo il jobs act è più debole. I lavoratori hanno paura di far emergere, denunciare, paura di essere licenziati, discriminati. L’Rls è protetto ma questo scudo termina con l’incarico. Ci vorrebbe un articolo 18 potenziato». «Ma quello l’ha cancellato la Fornero e poi è arrivato il jobs act – aggiunge Eliana Como, portavoce de Il Sindacato è un’altra cosa, la minoranza della Cgil – si deve fare più formazione sindacale agli Rls ma, in generale, ogni lavoratore deve essere messo in condizione di poter denunciare o potersi rifiutare se c’è condizione di rischio. E il sindacato, come già fa la Fiom, dovrebbe generalizzare l’usanza di costituirsi sempre parte civile nei processi per gli omicidi sul lavoro».

Riprende Santini a descrivere l’effetto dirompente delle “riforme” sulla vita di chi lavora e sulle statistiche: «Se ti fai male ti somministrano la lettera disciplinare, come dire è colpa tua. Oppure si aggancia l’infortunio al premio di produzione, oppure al premio Inail, una sorta di bonus-malus. Solo le morti non si possono nascondere. Il lavoratore spesso rinuncia a ricorrere al giudice per mancanza di risorse economiche per la difesa ed il processo. Il medico competente è un libero professionista iscritto all’albo dei medici del lavoro, dovrebbe essere super-partes ma è pagato dal datore di lavoro quindi un “dipendente” come i lavoratori. I tagli alla Sanità, il depotenziamento dell’Inail, fanno il resto. Se si parla di ispezioni non c’è nemmeno l’obbligo ma solo facoltà di relazionarsi con le Rls, secondo noi dovrebbe essere obbligatorio perché i lavoratori conoscono bene le condizioni di lavoro». Tutto ciò, già due anni fa, lo stesso Santini lo scrisse al governatore Rossi. Che non ha mai risposto. A proposito dei frutti del lassismo.

Quante morti bianche servono per uno sciopero generale?

 

 

 

 

 

 

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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