Emerge ancora più evidente il profilo del movimento 5 Stelle dai giri di consultazioni di questi giorni: è il profilo di una forza politica che, nel proporsi alla guida di un governo, fa equivalere corrispondenze d’amorosi programmi sia con la Lega sia con il PD.
L’appello al “contratto tedesco”, del resto, è una formulazione tecnica di un patto che equipollente che non fa differenza per la creazione di una piattaforma di gestione del Paese sia nel caso in cui Di Maio trovi una quadra per arrivare a Palazzo Chigi con il sostegno di Matteo Salvini sia che questa quadratura del cerchio la riesca ad individuare mediante un accordo con il vituperato Partito Democratico di Renzi e Martina.
Dunque, il “fenomeno Cinquestelle” è veramente tale perché supera i vecchi odiati confini ideologici di quella politica d’un tempo quando il valore delle proposte su cui fare politica dal tavolo del governo si fondava anche su una particolare visione della società e vi erano nette separazioni tra i partiti che non potevano dirsi disponibili ad alleanze equivalenti con soggetti diametralmente opposti tra loro.
Per dirla semplicemente, la Democrazia Cristiana non avrebbe mai potuto nello stesso istante dirsi disponibile a fare un governo con l’MSI oppure, in caso di rifiuto di quest ultimo, con il PCI.
La natura popolare e di massa del partito di Alcide De Gasperi (e di Don Sturzo prima) consentiva di rivolgersi a tutti, fascisti compresi, ma valutando la situazione sociale e politica contingente e, sulla base di questa, studiare quale fosse la parte con cui aprire il dialogo. Una contestualità multipla è sempre stata esclusa, soprattutto nella formazione di esecutivi a guida del Pentapartito, laddove si era formata e solidificata una impostazione liberale di governo con tratti di socialdemocrazia riformista che hanno consentito, ad esempio, a Bettino Craxi di essere presidente del Consiglio dei ministri pur essendo il capo di un Partito Socialista Italiano che aveva metà dei voti della Balena bianca.
La situazione odierna invece è uno sparigliamento totale non solo di carte programmatiche fondate su una mobilità di intenti impressionante e così veloce nel suo realizzarsi dall’essere quasi impossibile da seguire definitamente, ma si potrebbe definire veramente “liquida”, facendo riferimento proprio alla “forma dell’acqua”, quindi ad un adattamento costante dei contenuti a qualunque contenitore al fine di arrivare ad un piena gestione del potere politico pur arrivando da campagne elettorali in cui veniva promessa, da più versanti, una vera rivoluzione popolare fondata su una sorta di vantato anti-mondialismo dal sapore vagamente antiliberista.
La crisi economica di questi anni ha prodotto sconvolgimenti sociali profondi che le classi dominanti, quelle che detengono per davvero il potere perché è potere economico, hanno cercato di affrontare prima con i governi tecnici di Monti e Letta e poi con l’avventura renziana.
Archiviata la stagione dell’ex sindaco di Firenze, la borghesia imprenditoriale ha individuato in due forze politiche e, segnatamente, in due nuovi leader politici coloro che possono dare seguito ad una nuova stagione politica fondata su una pace sociale, su una stabilità dell’economia che non si fondi sull’aumento dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici ma nemmeno sulla furia cieca della compressione dei salari e delle pensioni che è stata l’onda d’urto propria delle legislazioni Fornero, del Jobs act che tutto hanno reso dipendente dal dogma del privato e del profitto.
Un nuovo patto, una nuova ristrutturazione che il capitale mette in campo attraverso addirittura l’immagine di una rivoluzione politica che rottama tutta una vecchia classe dirigente priva di credibilità presso il popolo propriamente detto e priva di altrettanta credibilità presso i mercati.
Nessuna innovazione, dunque, può venire da qualunque governo retto dai Cinquestelle che non sono una forza rivoluzionaria ma conservatrice; un tempo si sarebbe detto “liberal-conservatrice”, oggi si preferisce dire “modernista”, “innovativa”, che rompe insomma degli schemi che sono superati grazie ad una lenta e inesorabile operazione di convincimento popolare facilitata dall’autodistruzione della sinistra tanto moderata quanto di alternativa.
La prima per l’esaurimento politico derivato dalla voglia di gestione del potere politico mediante l’abbandono degli storici valori di uguaglianza e solidarietà sociale del movimento dei lavoratori e degli sfruttati tutti; la seconda schiacciata dal peso di compromessi necessari ma infruttuosi e privi di un riequilibrio nella acquisizione di conquiste programmatiche solamente scritte e mai partorite a causa della disparità dei rapporti di forza.
Del resto, Tancredi lo ha detto chiaramente molto tempo fa… «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».

http://www.lasinistraquotidiana.it/wordpress/i-gattopardi-a-cinquestelle/

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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