“La fantasia al potere” è uno degli slogan più citati e fortunati del Sessantotto. A dire il vero Herbert Marcuse non aveva usato questa parola, ma bisogna riconoscere che la traduzione italiana ha una forza maggiore di imagination au pouvoir, come dicevano gli studenti del Maggio francese. E devo ammettere che in cinquant’anni quella frase non ha perso la sua essenza poetica, la sua capacità di attrarre senza dir nulla. Perché – diciamoci la verità – quella frase così bella non vuol dir molto. E forse proprio in questo sta l’essenza del Sessantotto: una bella scatola, vuota.
Per ragioni anagrafiche, geografiche e politiche, io mi sono sempre sentito estraneo al Sessantotto, benché abbia vissuto in anni in cui l’influenza culturale e artistica di quel movimento ha fortemente condizionato la cultura di massa, e quindi la mia. Sono nato in campagna, nel 1970, da due genitori non giovanissimi, che ovviamente non avevano fatto il Sessantotto, ma che avevano combattuto molto prima le loro battaglie, vincendone qualcuna e perdendone molte altre, e che probabilmente guardavano a quelle tensioni sociali con un qualche sospetto. Peraltro ricambiato perché comunque anche loro appartenevano al “vecchio” mondo, quello uscito dalla guerra, che il Sessantotto voleva spazzare via; e ci riuscì. E probabilmente i miei e quelli della loro generazione intuivano – senza capirlo – che quel movimento avrebbe cambiato il mondo in un modo che a loro non piaceva.
Quei fortunati slogan – pensate a un altro celebre come è “vietato vietare” – non avevano un valore politico, neppure nel senso di lottare contro leggi repressive. Avevano esclusivamente un valore privato: erano pubbliche proclamazioni di sentimenti privati, perché – come dice un altro fortunato slogan – “il personale è politico”. La soggettività e l’individualismo hanno preso il sopravvento nel Settantotto e hanno occupato un posto da cui non si sarebbero più tolti. A scapito della società e delle sue classi. Il Quarto stato non è un’icona del Sessantotto, perché in quell’immagine i personaggi non si distinguono, avanzano uniti e anche cromaticamente sono un unicum. Invece era un’icona il Che, l’uomo solo che combatte contro il mondo.
Il Sessantotto racconta un’altra storia rispetto a quella del movimento comunista, ossia quella della liberazione dell’individuo, di ciascun individuo, dai legami imposti dalla società, dalla famiglia, dallo stato; si tratta naturalmente di una storia importante, che ha inciso positivamente sulla vita di tanti e tante, perché le donne in quel movimento ebbero un ruolo nuovo. La rivoluzione di quegli anni rappresentò il trionfo dell’individuo sulla società, senza peraltro portare all’anarchismo di Bakunin, che credeva che l’azione individuale avrebbe portato alla creazione di una società nuova, giusta e senza stato. Il Sessantotto fu una rivoluzione a suo modo conservatrice, perché la libertà dell’individuo si doveva esplicare nelle condizioni date. E credo sia per questa ragione profonda che il Sessantotto è stato assimilato dal capitalismo, anzi è diventato, con la sua arte, la sua musica, la sua moda, la cultura del capitalismo, perché il capitalismo vuole che gli individui esprimano la propria individualità – e ne tollera anche le richieste di libertà, ad esempio dal punto di vista sessuale – a patto di accettare il sistema e di svolgere tutta la propria azione all’interno di esso. L’individualismo esasperato ed egoista in cui oggi siamo immersi, con i suoi esiti perversi e violenti, è nato in quegli anni.
La generazione dei miei genitori, la generazione delle donne e degli uomini cresciuti dopo la fine del secondo conflitto mondiale, credevano invece che quello che importava fosse la massa e che gli uomini si sarebbero salvati insieme, e pensavano che per far questo occorresse sovvertire il sistema dato, cambiarlo dalle fondamenta. Per questo capirono che il Sessantotto era, nonostante gli slogan, uno strumento della reazione. E visto che io sono stato educato con le idee di quel “vecchio” mondo, anche se ho sempre sentito il fascino degli slogan del Maggio, delle sue canzoni, delle sue lotte, sono anche sempre stato convinto che al potere non debba andare la fantasia, ma la politica; e che la realizzazione dell’individuo sia meno importante della lotta di classe; e che i diritti sociali ed economici siano più importanti dei diritti civili e che comunque questi possano esprimersi davvero solo in una società giusta; e soprattutto che una rivoluzione non possa accettare lo stato di fatto nei rapporti di produzione, ma che debba porsi l’obiettivo di sovvertirli. Altrimenti ci rimangono solo dei bei slogan e delle belle bandiere.

 

 

 

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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