riceviamo e pubblichiamo

di Franco Astengo

E’ appena arrivato in libreria il nuovo lavoro di Giuseppe Vacca “L’Italia contesa” (edizione Marsilio).

Nel testo si affronta, con la solita finezza d’esposizione e ricchezza di ricerca storica tipica dell’autore, una tematizzazione  fondamentale della storia della Repubblica partendo dal presupposto che, per lungo tempo, questa storia è stata la storia dei partiti che l’hanno fondata e, in particolare, di due grandi forze popolari: il Partito Comunista Italiano e la Democrazia Cristiana.

L’autore ricorda come i due partiti fossero “uniti dalla Carta Costituzionale ma divisi dagli schieramenti internazionali di riferimento”.

Il PCI e la DC, considerati soprattutto nell’elaborazione politica progressivamente esposta dai loro principali esponenti, sono descritti dall’autore come caratterizzati da un intreccio di divergenze ideologiche insuperabili e di generosi tentativi di convergenza.

In particolare nel quarto capitolo “La percezione della Dc da Togliatti a Berlinguer”e, più specificatamente nel paragrafo “ De Gasperi dopo la morte” si affronta il passaggio riguardante la ricostruzione dell’Italia dal disastro bellico.

Una ricostruzione attuata prima con la collaborazione di governo (fino al maggio 1947) e successivamente con la DC alla guida dell’esecutivo e il PCI con il PSI all’opposizione.

In questo passaggio si rileva, almeno dal punto di vista dell’autore, come semplicistica la valutazione che Togliatti fornisce  sulla figura di De Gasperi, nel suo saggio pubblicato da “Rinascita” tra il 1955 e il 1956, in sei puntate, scritto quindi dopo la morte dello statista trentino.

La valutazione di Togliatti era riassunta in quel saggio intendendo l’azione degasperiana come di “ restaurazione del capitalismo”.

In realtà – precisa Vacca – Togliatti intendeva come la ricostruzione del Paese durante i cinque anni tra il 1948 e il 1953 fosse avvenuta (utilizzando i fondi dell’ERP in maniera autonoma anche rispetto agli stessi intendimenti del governo USA) ripristinando il modello di sviluppo tradizionale dell’economia italiana, fondato su bassi salari e bassi consumi (sarebbe così composta la “struttura economica tradizionale).

L’autore contesta questa valutazione togliattiana (ripetiamo espressa tra il 1955 e il 1956) e ne ripercorre tutto l’itinerario analitico ponendo in particolare l’accento sull’analisi che Togliatti vi svolge circa il rapporto tra il corporativismo fascista e quello cattolico.

In quest’ambito, oltre al dato puramente riferito al tema della ricostruzione post – bellico, è sottoposta a giudizio anche la distinzione tra i due “antifascismi” (quello democristiano è considerato da Togliatti come “antifascismo speciale) portando così il tema sul piano squisitamente politico.

All’interno di quest’analisi  sviluppata nel testo di Vacca si può notare come l’autore ometta la presenza, in quel contesto storico, di un protagonista che a giudizio di chi scrive questo intervento è stato sicuramente fondamentale: la classe operaia .

Insieme nel lavoro di Vacca pare mancare anche la descrizione del delinearsi dei rapporti di forza sul piano sociale e del determinarsi di nuove condizioni materiali di vita e di lavoro nell’Italia di allora.

Condizioni materiali di vita e di lavoro il cui mutamento materiale avrebbe poi avuto influenza sullo sviluppo dell’insieme delle questioni economiche e delle vicende politiche e sociali almeno fino alla vigilia del “miracolo economico” e dell’apertura (travagliata e complessa) del centro – sinistra.

E’ bene quindi cercare di fornire un contributo per qual che riguarda l’analisi del periodo della ricostruzione post – bellica rivolto al complesso degli agenti sociali influenzarono il quadro politico.

Quadro politico, attraversato anche all’epoca  da una forte tensione rivolta alla  “autonomia” nell’insieme dell’essere e dell’agire dei suoi soggetti portanti, cioè i partiti fortemente caratterizzati ideologicamente.

Proviamo allora ad andare brevemente per ordine.

Alla fine della guerra l’Italia si trovò di fronte ai seguenti maggiori problemi: in primo luogo vi era la grave situazione economica; in secondo luogo vi era l’eredità della divisione politica e militare del paese durante il periodo della Resistenza.

L’Italia del Nord aveva sviluppato al massimo il movimento di lotta contro il nazifascismo e si trovava complessivamente, nel valutare le esigenze di rinnovamento del Paese, su posizioni più radicali e progressiste che non l’Italia del Sud: quest’ultima, invece, dove la mancanza di lotta armata e la presenza della monarchia e del governo avevano assicurato la “continuità” delle strutture dello Stato, era rimasta chiusa in orizzonti più conservatori e moderati.

Infine, erano ben presenti sul territorio le forze armate alleate, con un loro peso assai rilevante in quanto esse non soltanto rappresentavano l’unico organismo in grado di provvedere ai primi necessari aiuti a una popolazione in miseria, ma sorvegliavano accuratamente gli sviluppi politici della situazione italiana, con non nascoste inclinazioni per le forze più moderate e una netta ostilità verso i partiti della sinistra.

L’influenza dell’Amministrazione Militare alleata divenne immediatamente un elemento imprescindibile per le forze politiche, tanto più che le truppe anglo – americane diventarono subito una garanzia per i partiti di Destra e di Centro.

Dal punto di vista economico l’Italia del 1945 si trovava in condizioni che, pur essendo di gran lunga migliori di quelle di molti altri Paesi europei (ad esempio la Germania e la Polonia) erano di per se stesse quanto mai pesanti.

Le distruzioni belliche avevano portato alla perdita di circa il 20% del patrimonio nazionale.

L’industria si era nella maggior parte salvata, poiché i danni bellici si aggiravano intorno all’8% degli impianti; ma le capacità produttive complessive, scese nel 1945 al 29% rispetto al 1938, erano gravemente compromesse, sia dalla mancanza di materie prime, sia dall’invecchiamento tecnologico, dovuto al logoramento subito durante la guerra negli anni trascorsi senza un adeguato rinnovamento.

L’agricoltura nel 1945 ebbe un calo produttivo assai pesante, dovuto sia alla rovina delle coltivazioni e dei terreni nelle zone di guerra, sia all’impoverimento del suolo, rimasto senza sufficiente concimazione.

In questa situazione risultarono d’importanza fondamentale gli aiuti forniti dagli alleati, con evidenti conseguenze politiche.

Gravissimi danni avevano subito i trasporti.

Anche nel settore dell’edilizia, con la messa fuori uso di oltre il 10% del totale dei fabbricati, la situazione si presentava abbastanza grave, specie nelle maggiori città.

I prezzi intanto erano saliti nel 1945 rispetto al 1939, di 18,4 volte.

I disoccupati e i sottoccupati ammontavano a un numero assai rilevante e costituivano un grosso e difficile problema politico e sociale.

Nel 1946 i disoccupati censiti risultarono 1.654.872 e il salario medio era circa la metà di quello del 1938.

In questa situazione si presentavano due alternative possibili: che lo Stato assumesse nelle proprie mani il controllo della ricostruzione oppure che questa venisse affidata sostanzialmente all’iniziativa privata.

Alcuni importanti elementi a sostegno della prima eventualità esistevano.

Anzitutto era disponibili gli strumenti di controllo che il fascismo aveva messo in atto per le esigenze dell’economia corporativa e dell’economia di guerra.

Questi controlli, svincolati dalle esigenze dell’economia corporativa, potevano essere utilizzati secondo nuove esigenze programmatiche.

In secondo luogo esisteva la base pubblica sia nel campo della finanza sia dell’industria: anche in questo caso si trattava dell’eredità della politica d’intervento attuata dal fascismo negli anni’30.

Si tenga presente che lo Stato deteneva nel 1945 il possesso di circa il 90% delle banche e una quota notevole dell’industria, specialmente di quella pesante.

La legge bancaria del 1936 rendeva inoltre possibile allo Stato di operare una selezione del credito secondo finalità specifiche.

Pur tuttavia prevalse la seconda opzione: quella liberista e ciò avvenne quando era ancora in carica il governo di solidarietà antifascista.

Il cambio della moneta, che con i controlli a essa legati avrebbe consentito di verificare gli extraprofitti dei “pescecani” di guerra e sottoporli ad adeguata tassazione, fu combattuta con successo dai liberisti favorevoli per contro al minimo di tasse sul capitale e alla sicurezza dei profitti.

La Dc si dimostrò, attraverso i ministri Bertone e Campilli, coerente esecutrice della linea liberista.

In ogni caso tra il 1945 – 46 la ripresa economica e produttiva non si realizzò. Una svolta fu introdotta con la politica economica di Luigi Einaudi, ministro del Bilancio, attraverso la svalutazione della lira nell’agosto del 1947.

La svalutazione ebbe voluto perché in tal modo si sarebbe favorita la riduzione delle importazioni, il rientro di capitali e il rilancio delle esportazioni, secondo una linea di tipo deflazionistico.

I risultati allora arrivarono, nel senso auspicato dai promotori di quella linea di politica economica.

La svolta einaudiana si pose, però, di pari passo con un attacco generalizzato ai livelli di occupazione, che nel 1948 era ancora assai basso con ben 2.124.474 disoccupati su una popolazione di 46 milioni.

Alla fine del 1948 la produzione industriale aveva raggiunto l’89% di quella del 1938 e quella agricola dell’84%.

La politica congiunta di svalutazione e deflazione ebbe un importante effetto sulla struttura delle imprese italiane, favorendone la concentrazione.

Risultò comunque molto significativo, all’interno di quel quadro, il fatto che l’IRI avesse superato la tempesta antistatalista e avesse ripreso ad operare ottenendo nel 1948 notevoli finanziamenti che dovevano costituire la base per un prossimo rilancio dell’industria pubblica.

In conclusione di questa parte della nostra ricostruzione si può affermare che la politica liberista di Einaudi aveva ottenuto rilevanti risultati rispetto all’obiettivo di rilanciare l’iniziativa privata e di contrastare una politica di programmazione, ma non ne ebbe alcuno per quanto riguardava il carattere monopolistico delle concentrazioni finanziarie ed industriali.

L’atteggiamento delle Sinistre di fronte ai problemi della ricostruzione fu improntato in generale, pur con differenze tra i comunisti e i socialisti. ad uno spirito di “solidarietà nazionale” e quindi di collaborazione “condizionata” con le forze imprenditoriali.

Una simile linea aveva quale presupposto un orientamento teorico generale che portava i comunisti a ritenere che il capitalismo italiano, con le sue tare storiche, non fosse in grado di assumere autonomamente il controllo del processo produttivo e si trovasse pertanto nella condizione di dover accettare il controllo delle grandi organizzazioni politiche e sindacali della Sinistra, le quali avrebbero, a livello di rapporti di produzione, realizzato la stessa formula del governo.
Era la linea del cosiddetto “capitalismo straccione” elaborata da Amendola che poi sarebbe stata alla base dello scontro interno nel post – Togliatti, fino all’XI congresso del 1966.

Il fatto che i comunisti lasciassero campo libero all’iniziativa privata portò i capitalisti, nella fase iniziale e di loro maggiore debolezza, ad accettare tatticamente il rapporto che i comunisti chiedevano; dopo di che, riassunte le redini delle aziende, passarono ad un’offensiva generalizzata contro le Sinistre e le loro richieste di controllo; vanamente, a quel punto, il PCI chiese un inizio di programmazione economica, che pure in un primo tempo aveva respinto come non attuabile per mancanza di strumenti.

In sostanza, all’estromissione nel 1947 delle Sinistre dal governo si accompagnò quella dai luoghi di lavoro.

Così la CGIL si trovò a dover restare su posizioni difensive, senza poter contrastare il recupero di potere delle classi dirigenti, nonostante tentativi di uscita da quel tipo di posizione come quella tentata nel 1949 con il varo del “Piano del Lavoro”.

In primo luogo il sindacato non riuscì ad opporsi allo sblocco dei licenziamenti, il quale nel gennaio del 1946 diventò totale anche se con scaglionamenti.

Nell’ottobre del 1946 fu accettata una tregua salariale che durò un anno, venendo così incontro alle richieste del padronato, in nome delle esigenze dalla ricostruzione.

Una situazione assai critica per la CGIL si delineò quando, in presenza di un forte processo inflattivo con la conseguente erosione dei salari si creò anche una situazione di diffusi licenziamenti a partire dagli ultimi mesi del 1947.

Le reazioni che diedero origine a forti agitazioni da parte degli strati popolari più colpiti furono, in sostanza, “frenate” dal sindacato, che si trovava in un’obiettiva posizione di debolezza e nell’impossibilità di dare alle proteste della base uno sbocco diverso da quello legato alle prospettive di una futura ripresa economica in grado di aumentare le disponibilità di lavoro.

Ben presto la scissione nelle file del sindacato, nel quadro di un’offensiva moderata generalizzata, doveva creare ulteriori difficoltà e un indebolimento del movimento operaio, coinvolto anche a livello sindacale dalla sconfitta storica nelle elezioni dell’aprile 1948.

Così il 1948 fu un anno chiave nella situazione del dopoguerra.

La vittoria schiacciante della DC nelle elezioni del 1948 e gli importanti aiuti statunitensi dati al Paese in base al piano Marshall costituirono la premessa perché l’ulteriore sviluppo politico e economico italiano avvenisse in un quadro d’isolamento sia dei partiti della Sinistra, sia della CGIL. Questo punto deve essere ricordato con attenzione, anche rispetto alle note critiche contenute nel volume di Vacca.

De Gasperi, dopo che come si è già fatto rilevare nel periodo 1945-48 era stato bloccato ogni rinnovamento politico – sociale sentiva nondimeno la necessità di un passo avanti, sia pure parziale.

A fronte di forti agitazioni sociali affrontate con quella repressione poliziesca che ebbe le sue punte più drammatiche al Sud con le uccisioni di braccianti a Melissa e a Montescaglioso e al Nord a Modena, con l’assassinio di 5 operai davanti alla fonderie Orsi Mangelli nel 1950, fu tentato dal governo centrista una sorta di “riformismo dall’alto” che diede risultati, a partire dalla riforma agraria approvata nel 1950, modesti e insoddisfacenti.

I risultati complessivi del quinquennio 1948-53 apparvero positivi sotto l’aspetto quantitativo, ma se si verificano dal punto di vista sociale gli squilibri non erano stati in alcun modo affrontati e attenuati.  questo è un punto che deve sottolineato e ricordato).

La politica liberista del governo aveva dunque fatto pagare costi salatissimi sia al proletariato industriale del Nord, sia al bracciantato del Mezzogiorno.

Agli elevati profitti stavano di fronte salari bassi e pesantissime condizioni di lavoro: condizioni miserrime per milioni di persona a cui si accompagnava una fortissima emigrazione verso i Paesi europei e le Americhe (emigrazione stimolata e agevolato dallo stesso Governo).

La ricostruzione poteva considerarsi ultimata nel 1954, quando la produzione industriale aveva superato ormai dell’81% la produzione del 1938, ma le condizioni reali di vita di gran parte del Paese iniziarono a migliorare soltanto con l’avvio della modernizzazione della grande industria, avvenuta grazie all’innovazione tecnologica che aveva fornito grande vantaggio alle esportazioni.

Toccò all’industria di Stato ricoprire il ruolo di capofila sia sul terreno dell’innovazione tecnologica, sia rispetto alle esportazioni, nella siderurgia, nella chimica e nell’industria petrolifera, con la vicenda legata all’ENI di Mattei fino alla sua misteriosa scomparsa.

Ma se aumentò complessivamente la produttività e con essa i profitti, i salari rimasero comunque indietro e scarsi furono i progressi dell’occupazione: nel 1955 risultavano ancora ben 2.161.000 disoccupati.

In una fase di sviluppo caratterizzata da alti profitti e da bassi salari, il padronato portò avanti (come mise in luce perfino un’inchiesta parlamentare sulle condizioni dei lavoratori nelle fabbriche svolta nel 1957) una dura politica di attacco ai sindacati.

Insomma: la ricostruzione era conclusa e ci si avviava verso il “miracolo economico” in un clima di duro attacco alla CGIL, in condizioni di bassi salari e di alta disoccupazione.

Appariva chiaro, allora come adesso, quali soggetti sociali erano stati chiamati a pagare gli altissimi costi della ricostruzione del Paese stremato dalla guerra fascista.

Si apriva a questo punto la stagione che avrebbe portato al “miracolo economico” e ad una svolta negli equilibri politici con il Luglio ’60 e il governo Fanfani delle “convergenze parallele”.

Un’Italia contesa dunque ma non semplicemente tra i due grandi partiti di mass.

Un’Italia stretta  nella morsa feroce di una aggressiva lotta di classe condotta da un padronato rimasto arretrato fin sulla soglia degli anni’60.

Nella realtà quindi una ricostruzione realizzata attraverso enormi sacrifici umani, di lavoratrici e lavoratori e delle loro famiglie in un clima di pesante sopraffazione sociale: quell’Italia degli anni ’40 – ’50 da non dimenticare.

Di AFV

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