Quello che è successo nel pomeriggio di un torrido lunedì estivo a Borgo Panigale può essere lo spunto per molte discussioni. Anzi è un dovere che lo sia. Deve interrogarci su come trasportiamo le merci e su come dovremmo farlo, su una rete di infrastrutture realizzate molti decenni fa e che adesso sono per molti aspetti inadeguate, sullo sfruttamento dei lavoratori a cui viene chiesto di consegnare il loro carico in sempre meno tempo, a un costo sempre inferiore e rinunciando anche alle più elementari misure di sicurezza. Quello che è successo a Borgo Panigale potrebbe spingere un paese a farsi delle domande e a cambiare un modello di sviluppo che provoca inevitabilmente tragedie come quelle a cui abbiamo assistito.
Non voglio però parlare di quello su cui tutti dovremmo riflettere, ma di ciò a cui ciascuno di noi dovrebbe pensare. Quello che è successo a Borgo Panigale deve farci riflettere su un tema di cui abbiamo paura di parlare e che facciamo di tutto per dimenticare, ossia che la nostra vita è legata a un filo, che è soggetta a una serie di fortuiti eventi imponderabili su cui noi, nonostante tutta la nostra sicumera, non possiamo fare nulla. Non sappiamo ancora cosa sia successo nell’abitacolo di quel camion, non sappiamo se l’autista si sia distratto o se sia stato male, ma sappiamo che quel camion si è scontrato con un altro mezzo e ha dato il via a una serie di eventi su cui ora discutiamo. Ma se l’autista non fosse stato male o non si fosse distratto, o se, nonostante il malore o la distrazione, non avesse colpito un altro mezzo? E se quell’incidente non fosse capitato proprio in quel punto, su un viadotto che passa in mezzo alle case? Certamente adesso non discuteremmo dei pericoli del trasporto su strada o della necessità di pensare a soluzioni infrastrutturali diverse. Eppure sono temi di cui avremmo dovuto comunque occuparci.
Quello di Borgo Panigale è stato prima di tutto un incidente, lo scatenarsi di una serie di eventi fortuiti. E ormai noi non siamo più pronti agli incidenti, perché non siamo più pronti a morire. Ci siamo convinti che tutto sia prevedibile, che la nostra vita non debba più essere soggetta al rischio, ci siamo illusi di essere in qualche modo capaci di dominare il destino. E’ un pericoloso inganno.
Come Bulgakov fa dire a Satana nel primo capitolo de Il Maestro e Margherita: “Sì, l’uomo è mortale, ma questo sarebbe un male da poco. Il peggio è che talvolta è mortale all’improvviso.”
Noi abbiamo dimenticato perfino di essere mortali, figurarsi se possiamo accettare di esserlo in ogni momento. E forse la nostra società è anche così incattivita proprio perché fa di tutto per espungere la morte e così non sa più affrontarla quando inevitabilmente e necessariamente accade, specialmente quando accade senza spiegazioni e senza un colpevole. E per questo noi cerchiamo affannosamente qualcuno e qualcosa a cui dare la colpa. Sempre. Ma siamo noi i primi responsabili, perché non sappiamo accettare che la morte è sempre possibile, anche quando andiamo al lavoro o in vacanza, anche quando siamo a Borgo Panigale, anche quando non ce l’aspettiamo.
I greci antichi raccontavano che la vita dei mortali era determinata da tre dee antichissime, le Moire, figlie primigenie della Notte, secondo Esiodo. Cloto tesseva il filo, che Làchesi avvolgeva attorno al fuso determinando per ciascuno la lunghezza della vita e infine Atropo, l’inesorabile, lo tagliava con le sue forbici affilate quando era arrivato il momento. E non c’era dio, neppure Zeus, che potesse far cambiare quello che le Moire avevano stabilito per noi. Sapere di essere mortali non rendeva quelle donne e quegli uomini meno attaccati alla vita, anche perché questa sulla terra era davvero l’unica vita che conoscevano e che credevano valesse la pena di vivere. Né il fatto di essere predestinati alla morte li rendeva meno virtuosi. Anzi siamo noi, che non pensiamo mai al momento in cui moriremo e che ci illudiamo di poter allungare quel filo senza alcun limite, a essere diventati peggiori, proprio perché abbiamo rinunciato alla morte. E insieme alla vita.

 

 

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy