di Walden Bello  – 11 ottobre 2018

Solo pochi anni fa l’idea che l’estrema destra sarebbe salita al potere in quelle che erano considerate democrazie liberali stabili sarebbe stata scartata non solo dai liberali, ma dai progressisti più di sinistra. Tuttavia in soli otto anni, 2010-2018, il mondo ha visto l’estrema destra passare dall’esterno dei corridoi del potere al centro stesso del potere.

 

Controrivoluzione nel Nord

C’è, naturalmente, Donald Trump. Ma prima della sua vittoria elettorale a sorpresa del novembre 2016, Vicktor Orban era tornato al potere in Ungheria nel 2010, quella volta reincarnato in un uomo della destra dura, invece del democratico liberale che era alla fine degli anni ’90. I nazionalisti indù di Narendra Modi aveva ottenuto una formidabile vittoria elettorale in India nel 2014. E la politica dura di legge e ordine di Rodrigo Duterte lo aveva portato alla presidenza delle Filippine nel maggio del 2016.

E dopo Trump la Alternative fuer Deutschland ha conquistato 94 dei 630 seggi del Bundestag tedesco alle elezioni del settembre 2017, la prima volta che l’estrema destra ha ottenuto una presenza in quell’organismo, e la Lega Nord anti-immigrazione è salita al potere in alleanze con il Movimento Cinque Stelle in Italia dopo le elezioni del marzo 2018. In Francia c’è voluta un’alleanza elettorale informale di centrodestra, centro, centrosinistra e sinistra per respingere il tentativo del Fronte Nazionale di Marine Le Pen di ottenere la presidenza al ballottaggio elettorale del maggio 2017.

Come spieghiamo questa resurrezione della destra autoritaria?

Innanzitutto alcune parole sull’ascesa dell’estrema destra nel Nord globale. Non mi piace citare Barack Obama, ma va citata un’osservazione dai lui fatta recentemente a Johannesburg: “Le contestazioni alla globalizzazione erano arrivate prima dalla sinistra ma poi sono arrivate con più forza dalla destra, quando si sono cominciati a vedere movimenti populisti… [che] hanno attinto al disagio avvertito da molti”.

Noi a sinistra possiamo non gradire il portatore di queste parole, ma Obama ha avuto ragione: la destra estrema ha espropriato i progressisti della critica alla globalizzazione. Si sono mangiati il nostro pasto.

Di fatto, l’estrema destra non solo si è impossessata della critica della sinistra indipendente della globalizzazione. Ha anche parlato con più forza della sinistra del deficit democratico dell’Unione Europea, con Marine Le Pen che ha opportunisticamente definito “dittatura dell’Euro” il fatto che la Troika ha ignorato i risultati del referendum greco del 2015 che aveva respinto i termini dell’ultimo programma di austerità.

Inoltre, mentre la sinistra in generale era paralizzata dalla continua adesione dei partiti socialdemocratici all’ideologia neoliberista che ha scatenato la crisi finanziaria in Europa e negli Stati Uniti, partiti di destra in Europa hanno ridimensionato gli interessi contro le tasse, contro il governo accentratore e il libero mercato della loro base originale petit bourgeois e hanno abbracciato opportunisticamente un programma anti-neoliberista e lo stato sociale. La strategia ha pagato. In Francia il “nuovo look” conferito al Fronte Nazionale da Marine Le Pen, succeduta al padre, il notorio razzista Jean-Marie Le Pen, ha suscitato questa osservazione di un senatore socialista francese: “Gli elettori di sinistra stanno attraversando la linea rossa perché pensano che la salvezza dalle loro difficoltà sia incarnata da madame Le Pen… Dicono no a un mondo che pare duro, globalizzato, implacabile. Sono persone della classe lavoratrice, pensionati, impiegati, che dicono: ‘Non vogliamo questo capitalismo e questa competizione in un mondo nel quale l’Europa sta perdendo la sua leadership’”.

L’estrema destra ha ora sposato queste preoccupazioni tradizionalmente di sinistra a un programma razzista, sciovinista e anti-immigranti che ricorda la piattaforma offerta da fascisti e nazisti al popolo durante i volatili anni ’30: un programma difensivo che comporta un forte gestione statale dell’economia lasciando in larga misura intatto il modo capitalista di produzione (assieme alla sua disuguaglianza di classe), sebbene con privilegi discriminanti per intere comunità sulla base di etnia, sangue e razza e con confini sigillati ai migranti.

Chiamatelo stato sociale, ma solo per i membri del gruppo razziale e culturale dominante.

E’ un programma enormemente attraente per contrastare il quale ci vorrà tutta l’energia e l’immaginazione della sinistra europea.

 

Controrivoluzione in Asia

Passando all’Asia, anche là è in corso una controrivoluzione.

In India abbiamo una destra indù che ha conseguito una grande vittoria alle elezioni del 2014 e mira a consolidare la sua egemonia alle elezioni dell’anno prossimo. La controrivoluzione è sanguinaria. Linciaggi di mussulmani, dalit e adivasi o di intellettuali di spicco e l’arresto di attivisti sono oggi cosa normale.

Questo forse non è inatteso, visto che il primo ministro Narendra Modi è stato capo dei ministri dello stato di Gujarat nel 2002, quando in un periodo di due mesi, circa 2.000 persone – in gran maggioranza mussulmani – hanno perso la vita in quello che molti considerano un pogrom. La destra controlla il ciberspazio, da dove crea false notizie che scatenano sommosse antimussulmane, come nella città di Muzaffarnagar nel 2013, o diffonde discorsi di odio, ad esempio sollecitando che la scrittrice indiana Arundhati Roy sia legata a una jeep dell’esercito e usata come scudo umano in Kashmir.

Penso sia corretto dire che gli intellettuali liberali e gli attivisti progressisti in India non hanno ancora afferrato pienamente quello che è successo e ancor meno ideato come contrastarlo.

Ma chi sono io per parlare? Nel mio paese, le Filippine, un assassinio seriale che ha preso più di 7.000 vite (una cifra che molti considerano sottostimata) in poco più di due anni da che è capo di stato, ed è tuttora popolare quanto quando è stato eletto. L’opposizione deve ancora trovare una posizione ferma, con le due forze principali che sono un’opposizione liberale d’élite screditata e un’ugualmente screditata estrema sinistra. Nel frattempo pare ci siano pochi ostacoli a che il presidente Duterte stracci la costituzione liberale democratica e istituisca un sistema autoritario mascherato da federalismo.

C’è poco di che stare allegri quanto al resto. Nella Tailandia governata da una giunta, l’esercito non mostra alcuna urgenza di tornare nelle caserme, poiché la classe media preferirebbe averlo al potere piuttosto che avervi una democrazia appoggiata dalle classi inferiori. In Cambogia Hun Sen ha cancellato le ultime vestigia di democrazia sciogliendo unilateralmente il principale partito d’opposizione. In Myanmar l’esercito sta conducendo un genocidio con il forte sostegno della maggioranza buddista e l’acquiescenza del governo civile eletto di Aung San Suu Kyi.

 

Caratteristiche comuni

Osservando più da vicino alcuni di questi paesi nei quali l’autoritarismo è in ascesa, diventano chiare diverse cose.

Innanzitutto c’è una ribellione in corso contro la democrazia liberale, anche se ci sono sfumature diverse in casi differenti.

In India la rivolta è contro il carattere laico della democrazia liberale, contro la sua difesa della diversità e contro le protezioni che accorda alle minoranze rispetto alla maggioranza. Si potrebbe dire che quello che sta emergendo è un regime maggioritario, cioè democratico nel senso limitato di promuovere il governo della maggioranza a spese dei diritti della minoranza e delle libertà civili, molto simile al regime di “democrazia illiberale” dell’uomo forte ungherese Viktor Orban.

Nelle Filippine l’insurrezione contro la democrazia liberale è una reazione al dirottamento del processo elettorale da parte delle élite per competere tra loro, collaborando contemporaneamente per perpetuare il loro dominio di classe e al fallimento dei 32 anni di sistema democratico liberale di realizzare riforme sociali ed economiche. In Tailandia è contro il “fallimento” della democrazia liberale di preservare i privilegi della minoranza contro una maggioranza povera che la prima descrive ignorante e corruttibile.

Secondo: razzismo, etnocentrismo e complesso di superiorità culturale sono motori centrali di alcuni di questi movimenti estremisti. In India, Europa e Stati Uniti questi movimenti hanno adottato la narrazione di una caduta da una qualche “Età dell’Oro” incontaminata da estranei come mussulmani e non bianchi nel caso dei movimenti di destra europei, da mussulmani e cristiani in quello dei nazionalisti indù e da neri e ispanici in quello della destra statunitense.

Terzo: i movimenti estremisti in Asia, pur avvantaggiando le élite, godono del sostegno delle classi medie.

In india i sostenitori più entusiasti sono quelli che un osservatore ha definito “una classe media in crescita che è affamata di affermazione religiosa e stanca dell’eredità socialista razionalista di Jawaharlal Nehru”. In Tailandia, timorosa delle masse di poveri rurali mobilitate dal primo ministro Thaksin, la classe media, compresa la maggior parte dell’accademia, appoggia misure che bloccherebbero il governo della maggioranza e preferirebbe avere un regime militare piuttosto che un genuino sistema di voto capitario. Nelle Filippine quelli della classe media sono i più ferventi sostenitori della sanguinaria guerra alla droga del presidente Duterte, nella quale il giusto processo è stato gettato dalla finestra.

Quanto al Nord, vasti settori della classe lavoratrice bianca si sono uniti alle classi medie come base dei partiti estremisti, ingannati dalla promessa della destra di uno stato sociale, ma solo per la cosiddetta popolazione nativa, cioè i bianchi.

Quarto: nelle Filippine e in India c’è una logica eliminazionista per gli atti brutali del regime.

In India mussulmani e cristiani sono considerati alieni innestati nel corpo politico indù. Anche se considerazioni tattiche impongono che siano trattati per il momento “solo” come cittadini di seconda classe, queste comunità devono alla fine essere asportate da pogrom o da trasferimenti forzati quando si presenterà l’occasione, come accaduto in Gujarat nel 2002.

Nelle Filippine i drogati sono l’equivalente degli ebrei dell’era nazista nell’universo del presidente Duterte. Duterte ha semplicemente cancellato queste persone dalla razza umana. I drogati sono relegati fuori dai confini dell’”umanità” poiché i loro cervelli sono asseritamente ridotti al punto che non sono più in possesso delle loro facoltà di volere e pensare. Nei suoi discorsi che giustificano le uccisioni “in autodifesa” della polizia, Duterte ha affermato che un anno o più dell’uso del “shabu” – il termine locale per le metamfetamine – “avvizzisce il cervello di una persona e pertanto essa non è più suscettibile di riabilitazione”. Questo persone sono “morti viventi, ambulanti” che “non sono più di alcuna utilità per la società”.

 

Che fare?

Innanzitutto i progressisti devono guardare onestamente in faccia il fatto che questi movimenti sono al potere o sulla soglia del potere e una volta che ottengono il potere, attraverso elezioni o altri mezzi, non hanno nessuna intenzione di cederlo. Se c’è una lezione chiave che questi movimenti hanno appreso da Hitler, arrivato al potere attraverso elezioni democratiche nel 1932-33, è questa. Amit Shah, il presidente del BJPha vantato che il suo partito resterà al potere nei prossimi cinquant’anni.

Secondo: anche se sollecitiamo in continuazione il rispetto dei diritti umani, dobbiamo al tempo stesso renderci conto che essi potrebbero oggi trovare minor favore presso persone influenzata da leader che scartano i diritti umani come un’ideologia occidentale che gli ideologhi del BJP definiscono di “liberstardi mal-laici”.

Inoltre i tempi richiedono una politica progressista che vada oltre la sollecitazione di un ritorno alla vecchia e screditata democrazia elitaria, nella quale l’uguaglianza era puramente formale, per passare a una politica che abbia al suo centro il conseguimento di una genuina uguaglianza economica e sociale, che uno chiami ciò socialismo o post-capitalismo. Questo programma deve chiedere uno stato più forte e una gestione dell’economia da parte della società civile, un’economia che vada oltre il capitalismo, con una forte dose di ridistribuzione radicale di reddito e ricchezza, promuovendo al tempo stesso processi democratici, laicità, diversità e i diritti delle minoranze, migranti compresi.

Terzo: anche se molti delle classi media hanno quello che potremmo chiamare, seguendo Gramsci, un “consenso attivo” alla politica autoritaria, molti delle classi più povere ed emarginate tengono la destra a debita distanza o limitano il loro sostegno a un consenso passivo. Dobbiamo concentrare la nostro contromobilitazione su questi settore senza, tuttavia, rinunciare alla classe media, o alla classe lavoratrice bianca, quanto a questo. Minoranze razziali, etniche e culturali devono essere al centro di questa coalizione.

Quarto: i partiti e le personalità della destra sono fortemente misogini in un’epoca nella quale le lotte delle donne per i loro diritti sono in ascesa in tutto il mondo. Dunque è assolutamente cruciale che le donne in gran numero abbiano un ruolo centrale nella politica del movimento antifascista. Le donne, quando mobilitate, sono uno dei baluardi più forti contro il fascismo.

Quinto: molti personaggi e partiti progressisti che hanno avuto ruoli chiave nella vecchia arena politica democratica liberale si sono screditati, assieme al sistema democratico liberale. Così, anche se dobbiamo costruire coalizioni vaste, è imperativo che a rappresentare la reazione progressista al fascismo arrivino volti nuovi, nuove formazioni politiche e nuove idee. I giovani sono il campo di battaglia centrale, e stiamo perdendo terreno tra loro.

 

Déjà vu?

Oggi siamo in larga misura dove eravamo negli anni ’30, con le forze dell’estrema destra all’offensiva e con il destino della politica democratica progressista in bilico.

Gli ultimi pochi anni hanno sepolto l’idea deterministica di Francis Fukuyama che la democrazia liberale fosse il futuro di ogni paese, proprio come prima di Fukuyama eventi memorabili avevano sepolto il concetto ugualmente deterministico che il socialismo fosse l’onda del futuro.

Il futuro emerge dallo scontro di movimenti e idee; è contrassegnato da grande incertezza ed emergenza. Non c’è alcuna garanzia che la nostra parte prevarrà, ma certamente perderemo se non ci opporremo in un modo che sommi determinazione, passione e saggezza.

L’editorialista di Policy in Focus, Walden Bello, è attualmente professore internazionale aggiunto di sociologia presso l’Università Statale di New York a Binghamton. Membro della Camera dei Deputati delle Filippine dal 2009 al 2016 è stato il solo a dimettersi per motivi di principio nella storia del Congresso a causa di differenze con il governo del presidente Benigno Aquino III. E’ autore di 23 libri, tra cui gli imminenti ‘The Fall of China? Preventing the Next Crash’ (Londra, Zed Books, 2019) e ‘State and Counterrevolution: Explorations into the Global Rise of the Right’ (Halifax: Fernwood, 2019).

 

Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/understanding-the-global-rise-of-the-extreme-right/

Originale: Foreign Policy in Focus

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2018 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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