Nell’antica Grecia i rapsodi erano artigiani, che andando di città in città, di villaggio in villaggio, cucivano insieme – è questo il significato etimologico di questa parola – versi che avevano raccolto lungo i loro viaggi. Spesso inventavano loro stessi le storie che cantavano, ma preferivano attribuirle a qualcun altro ed è per questo che le due grandi rapsodie giunte fino a noi da quei tempi lontanissimi sono state attribuite a un uomo che non è mai esistito.
Confesso che, per le mie passioni musicali, se dico la parola rapsodia io penso immediatamente a Gershwin, al trillo del clarinetto che introduce quel brano che per me è capace di raccontare musicalmente il Novecento, nelle sue speranze e nelle sue ansie, nella sua velocità, e anche nella sua pazzia. In questi giorni però, complice un film che porta lo stesso titolo, voglio associare questa parola a uno dei brani più famosi dei Queen. E forse l’antica definizione di rapsodo ben si adatta al genio di Freddy Mercury.
Le continue sorprese musicali che ci riservano i sei minuti di Bohemian Rhapsody rischiano di mettere in ombra un testo capace di raccontarci una storia che è allo stesso tempo personale e universale, proprio come quelle dei rapsodi. Noi siamo costretti a leggere il drammatico duello tra Achille ed Ettore, che è il culmine drammatico dell’Iliade, ma quello non era un testo destinato alla lettura: sono versi che devono essere cantati e aver perso la musica di Omero è una delle più gravi perdite della storia della cultura umana. Speriamo non succeda lo stesso a chi abiterà questo pianeta tra mille anni, speriamo non siano costretti a leggere solo i libretti del grande melodramma italiano, senza poter ascoltare la musica di Verdi. E speriamo possano ascoltare la musica di Bohemian Rhapsody, mentre cercano di capirne il testo.
E lo capiranno, perché anche tra mille anni, le donne e gli uomini che vivranno in questo pianeta soffriranno perché Achille non può non uccidere Ettore, perché Ettore ha ucciso l’uomo che egli amava, anche se sa che dopo toccherà anche a lui inevitabilmente morire, anzi Achille vuole morire, perché ha perso Patroclo, e per questo vuole uccidere Ettore. E allo stesso modo quelle donne e quegli uomini soffriranno sentendo il drammatico racconto di un giovane uomo che ha ucciso una parte di sé e che non è pentito di quello che ha fatto, solo preoccupato per le persone che si lascia dietro, per sua madre prima di tutto. Sentiranno il coraggio e l’orgoglio che sta dietro quel gesto estremo, quell’uccisione, perché “tutti lo possono vedere”, anzi tutti lo devono vedere.
Achille, se Omero avesse immaginato i suoi versi accompagnati dalla forza della chitarra di Brian May, avrebbe potuto cantare:
Just gotta get out, just gotta get right out of here.
Nothing really matters,
anyone can see,
nothing really matters,
nothing really matters to me.

 

 

se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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