La complessità degli avvenimenti che la Francia sta vivendo in queste settimane non permette di relegare la rivolta francese dei Gilet gialli ad una semplice rivolta “di popolo”. Così come l’attacco terroristico in corso a Strasburgo, con l’assassino ancora in fuga, non consente di minimizzare gli aspetti di una vicenda che, come quelle che l’hanno preceduta, può apparire semplice nella ricostruzione di cronaca ma che, invece, è estremamente complessa nella dinamica di svolgimento, di nascita e di crescita.

Un po’ tutte le rivoluzioni partono da questa generica affermazione: è il popolo a dare il via ai moti di insurrezione che costringono il potere costituito ad una resa oppure a più miti consigli su determinati ambiti di una situazione sociale invivibile.

In un suo scritto su Euro Nomade, Toni Negri ci invita ad una riflessione che mi sembra interessante quando si parla proprio del concetto di “insurrezione”: cosa si intenda in merito e se si possa attribuire tale termine alle sommosse cui abbiamo assistito è tutto da stabilire. Ma, sostiene Negri, “…c’è ormai in Francia una moltitudine che insorge violentemente contro la nuova miseria che le riforme neoliberali hanno determinato.“.

Il verbo “insorgere” sembra giustificato dal fatto che il movimento dei Gilet gialli, al di là della violenza che pure manifesta bruciando le auto, violando la sacralità dell’Arco di trionfo sugli Champs Elysee parigini e dando saccheggio a numerosi negozi e catene commerciali della capitale, provando ad assediare Macron nel suo palazzo presidenziale, ha un sostegno popolare vasto.

L’indignazione per le tassazioni eccessive ha fatto emergere un malcontento che si è canalizzato nella rivolta dei Gilet gialli che hanno ottenuto da Macron una serie di concessioni politiche frutto di un cedimento del Presidente francese ad un assetto violentemente liberista che stava portando avanti senza ritegno per un minimo di normalmente ipocrita appello alla “pace sociale” mediante i “sacrifici” che devono sempre essere i moderni proletari a fare.

Come Luigi XVI con davanti uno sconsolato Jacques Necker, Macron ha dovuto fare spallucce e forse magari pronunciare frasi storicamente celebri, riportate anche nel fedele sceneggiato sulla Rivoluzione firmato dalla regia di Robert Enrico in cui cui il sovrano chiede: “Volete avere la gentilezza di rileggermi ancora quel testo…“. Di rimando il ministro: “Io accetto senza riserva alcuna la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino che l’Assemblea Nazionale ha deciso di sottoporre alla mia attenzione. Per voi è accettabile, maestà?“. Sconsolatamente rispose il re: “Secondo voi la cosa ha ancora qualche importanza?“. La reggia fatta costruire da Luigi XIV era assediata dal popolo che bivaccava nei cortili e che l’avrebbe proprio assaltata il giorno dopo, nonostante la firma sulla “Dichiarazione dei diritti”, per chiedere che il sovrano tornasse nella capitale. Fu un tira e molla proprio come tra Macron e il popolo dei Gilet gialli.

Forse anche allora c’erano facinorosi, elementi a cui non importava niente del miglioramento delle condizioni di vita del Terzo Stato: chi ha soffiato sul fuoco delle rivolte lo ha fatto sovente per averne un tornaconto soprattutto economico, quindi di potere. Non è dunque impossibile che la folla di Parigi fosse, oltre che dai club rivoluzionari che stavano nascendo, mossa anche da avventurieri che avevano scritto in faccia il segno del tradimento come elemento costitutivo del loro fervore rivoluzionario.

Così oggi tra i Gilet gialli, che somigliano molto ai “forconi” di casa nostra, ci sono eterogeneità che Toni Negri analizza molto bene e che riconduce ad un solo motto: “Tutti contro Macron”. Per questo è un movimento politico perché vuole modificare atti politici delle massime istituzioni repubblicane francesi: ma è anche un movimento altamente impolitico, antipolitico, che disprezza i partiti e che ne accetta la presenza solo laddove, i partiti strutturati sono l’elemento aggregante, che porta consenso, che diventa necessario per lo sviluppo delle lotte.

Poi Toni Negri si fa una domanda (e ci fa una domanda…) molto interessante, che come marxisti non possiamo eludere: “Come può una moltitudine, caratterizzata dentro movimenti insurrezionali, esser tolta ad una deriva di destra e trasformata in classe, in potenza di trasformazione dei rapporti sociali?“. Ed arriva alla conclusione che, senza una trasformazione classista, tende a perdere tutta la forza che ha prodotto, perché il sistema politico (e di conseguenza quello economico) la neutralizzerà come fenomeno meramente riconducibile alla sicurezza. Ne farà un problema di polizia e non di rapporto con una classe sociale che si ribella agli sfruttatori: se non ci sarà una intermediazione politica attraverso sindacati come la CGT o coalizioni politiche come la France Insoumise, non ci potrà essere nessuna versione “di sinistra” dei Gilet gialli. Rimarranno un quasi anonimo movimento a-classista a cui il potere potrà dare la caccia come forza squisitamente antistatale, violenta e in preda ad un isterismo di massa.

Le parole del Luigi XVI – Macron, le sue scuse fatte in merito ad alcune frasi che avevano innescato la rabbia malpancista di una folla incapace di riconoscersi un ruolo di classe, quelle parole hanno smorzato un poco i toni. L’attentato di Strasburgo ha contribuito, suo malgrado, a deviare l’attenzione dell’opinione pubblica ed in poche ore, ha cambiato la fisionomia della ribellione generale.

La patria in pericolo fa ritrovare l’unità interclassista sotto la grande bandiera della Rivoluzione repubblicana ma non di segno giacobino.

Anzi, in Italia, sulla apprezzabilissima opera che Rai Storia fa ogni giorno, si assiste a programmi dove la figura di Robespierre viene trattata in tre quarti d’ora con una superficialità tale da impedire la comprensione di un tratto distintivo dell’”Incorruttibile”, tratteggiato come un buon avvocato finito a gestire a trent’anni il governo di Salute pubblica di una nazione attaccata su tutti i fronti dalle monarchie europee e, per questo, risoluto nel difendere l’ideologia rivoluzionaria piuttosto che ricercare il benessere concreto dei cittadini.

Questa scissione tra ideologismo quasi pauperistico robespierrista e sano pragmatismo di un dantonianesimo mai abbandonato come forma naturale della Rivoluzione da una certa corrente storicistica, rimane il solco su cui si traccia ancora oggi la bontà della vittima Danton, che è stato indubbiamente un grandissimo rivoluzionario (come tutti ricchissimo… anche di contraddizioni) distinta dalla crudeltà ossessiva di un culture del binomio tra virtù della Repubblica e terrore.

La patria in pericolo allora necessitava delle “Leggi di Pratile” e di misure rivoluzionarie per difendere la giovane Repubblica in una Europa assolutista che usciva ormai da un Medioevo spazzato via dall’opera illuministica.

La patria in pericolo oggi, questa Francia assediata da Gilet gialli e da terroristi che sparano all’impazzata nei mercatini di Natale della città simbolo dell’Europa, sede del Parlamento del Vecchio Continente, è l’immagine di una fragilità sociale che non trova un contraltare in una sicurezza civile e morale. Forse Macron, oltre a ripensare alle misure economiche contro gli sfruttati di oggi, dovrebbe anche valutare il tipo di politiche immigratorie che ha perseguito: la chiusura delle frontiere, la ghettizzazione dei migranti senza una vera integrazione in ogni singolo ambito delle grandi città francesi, ha prodotto una, forse più, generazioni di giovani che si ribellano al sistema del profitto e dell’infelicità indossando un gilet giallo quando va bene, spaccando vetrine, rovesciando auto, ma marciando anche unitariamente e pacificamente; quando invece le cose vanno male, uno, due “radicalizzati”, cresciuti nell’odio verso chi li odia, prendono una calibro 9 e si mettono a sparare.

E la libertà muore così: sotto colpi di pistola che non sono di una rivoluzione, che non hanno dietro una rabbia di classe, ma solo un cieco disprezzo verso un mondo non accogliente, respingente e ricco soltanto di pregiudizi che alimentano egoismi e ricchezza per sempre troppo pochi…

MARCO SFERINI

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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