Si limano i testi, ma la platea degli esclusi si allarga così come la rabbia e le proteste. Il decreto unico per Reddito di cittadinanza e Quota 100 dovrebbe arrivare in consiglio dei ministri tra giovedì e lunedì prossimo. Il capitolo pensioni è relegato nella ultima parte, al Titolo II. I dodici articoli – nella versione attuale – non presentano particolari sorprese rispetto al meccanismo per Quota 100 nell’articolo 1 subito definito «in via sperimentale» triennale e già stabilendo che «l’età anagrafica è successivamente adeguata agli incrementi alla speranza di vita», vero dogma intoccabile dell’austerità imposto dalla Troika e che il governo del cambiamento si guarda bene dal toccare.

Servono 62 anni di età e 38 di contributi e le finestre – il tempo che passa dal raggiungimento del requisito alla reale uscita dal lavoro e all’erogazione del primo assegno di pensione – sono quelli previsti: tre mesi per i dipendenti privati, sei per quelli pubblici ma partendo da marzo e dunque con le prime uscite a luglio – a settembre per scuola e università.

Sull’appetibilità di Quota 100 ieri ha cercato di recuperare il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon. Rispondendo a chi sostiene che il taglio implicito dell’assegno dovuto al minor montante contributivo figlio dell’uscita anticipata scoraggerà molti potenziali pensionandi, l’esponente leghista ha risposto «con uno studio fatto con l’Inps: su una pensione di 1500 euro, il non percepito è pari al 16%, fino al 2% iniziale di un anno».

Sulla norma già contestata del Tfr per i dipendenti pubblici che arriverebbe fino a 8 anni dopo l’agognato addio al lavoro, le promesse di impegno del ministro Bongiorno non stanno sortendo effetto. La soluzione prevista («le pubbliche amministrazioni stipulano apposite convenzioni con gli istituti di credito per l’erogazione anticipata» dell’ennesimo prestito bancario – la stessa del flop dell’Ape volontario del governo Renzi-Gentiloni per andare in pensione prima e che nessuno ha chiesto – è già stata bocciata da tutti i sindacati e da tutti i lavoratori.

I più arrabbiati di tutti sono però gli esodati. Per chi – come Lega e M5s – ha sempre sostenuto di voler «cancellare la Fornero» e ha messo nero su bianco lo «Stop legge Fornero» nel capitolo 17 del «contratto del governo del cambiamento» avere ancora persone senza reddito nè pensione a ben otto anni dalla riforma più odiata dagli italiani è una vera debaclè.

Negli incontri avuti dai comitati di esodati – ne sono rimasti almeno 6mila esclusi dalle otto salvaguardie varate in questi anni – il vicepremier Di Maio aveva garantito la 9° salvaguardia per tutti.

A questa mancata promessa si sommano le beffe su «opzione donna» e «Ape sociale», stumenti che potevano ovviare ai problemi degli esodati. Per quanto riguarda l’Ape sociale – norma dei governi Pd che prevede un’indennità fino alla pensione per chi ha 63 anni di età ed ha svolto lavori gravosi – viene prolungata di un solo anno («fino al 31 dicembre 2019») e continua a prevedere per «i disoccupati involontari» la clausola «di avere concluso indennità di disoccupazione o Naspi da 3 mesi» e «30 di contributi» escludendo quindi tutte le tipologie di esodati che – in quanto tali – non hanno diritto alla Naspi.

Per «opzione donna» – la norma voluta da Maroni nel 2004 che permette alle lavoratrici di andare in pensione con 35 anni di contributi ma col ricalcolo interamente contributivo dell’assegno e quindi un taglio di circa il 30 per cento – viene prevista solo per le dipendenti nate entro il 31 dicembre 1959» e dunque 60enni e le lavoratrici autonome da un anno in più.

Per tutte queste ragioni i comitati degli esodati hanno già annunciato una mobilitazione per giovedì dalle 10 alle 13 di fronte al ministero dello Sviluppo economico a Roma.
Infine c’è la beffa per la «pensione di cittadinanza». La promessa di «aumentare le minime a 780 euro» varrà – parola di Di Maio – solo per «500mila pensionati» rispetto ai quasi 5 milioni che se la aspettavano.

https://www.lasinistraquotidiana.it/pensioni-decreto-beffa-per-esodati-e-disoccupati/

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy