Capitò tutto nel giro di pochi giorni alla fine del 1991: il 24 novembre morì Freddy Mercury e il 16 dicembre Pier Vittorio Tondelli. E il 2 dicembre Fernando Aiuti baciò in bocca, sotto gli occhi dei fotografi, Rosaria Iardino. Ovviamente furono coincidenze, ma certamente l’aids è stata la malattia della nostra giovinezza, che in qualche modo ha segnato la storia personale di tanti di noi e politica di almeno un paio di generazioni di giovani donne e di giovani uomini vissuti alla fine del Novecento.
I nostri nonni e bisnonni avevano avuto la spagnola, che causò la morte del 4% della popolazione mondiale dell’epoca. Il primo anno di diffusione di quell’epidemia l’aspettativa di vita si ridusse drasticamente di dodici anni. La prima guerra mondiale fu l’elemento che rese così letale quell’epidemia: ne favorì la diffusione, ma soprattutto la povertà che inevitabilmente seguì a quel conflitto – sia tra chi aveva vinto che tra chi aveva perso – rese quel morbo sempre più mortale. Lo racconta bene Manzoni in riferimento alla grande peste del 1630: gli uomini fanno di tutto per peggiorare le cose. La spagnola, a differenza della peste manzoniana, fu anche una malattia di classe: più eri povero più avevi la possibilità di ammalarti e di morire.
Con l’aids non fu così, almeno negli anni della nostra giovinezza non fu così. L’aids ci spaventò perché tutti noi potevamo essere colpiti dal virus Hiv e quindi inesorabilmente morire. Anche se non abbiamo conosciuto nessuno morto di aids, quella era una realtà che in qualche modo sentivamo incombere su di noi. Potevi essere un idolo del rock, potevi essere uno scrittore di culto, ma il rischio c’era, perché quella malattia non era di classe, ma legata a dei “comportamenti” che ci dicevano essere rischiosi. Ti dicevano che se morivi di aids, in fondo te l’eri cercata.
Certo noi allora avevamo paura – volevano che avessimo paura – ma in qualche modo quella paura fu anche liberatoria, anche perché era morto Freddy Mercury, anche perché era morto Pier Vittorio Tondelli. Noi in qualche modo ragionammo di quella paura con cui tentavano di legarci, alcuni in buona fede, per impedirci di correre rischi inutili, ma molti con l’intenzione di tenerci prigionieri in gabbie che avevano costruito per noi e che volevano fossero sempre più strette.
La paura dell’aids ci servì in qualche caso a riflettere sul sesso, perché avere un profilattico era uno dei modi per allontanare il rischio. Ma il preservativo non serviva solo a combattere l’aids. E’ del 1992 il celebre spot di una nota marca di preservativi. In aula c’è la solita confusione di quando non c’è l’insegnante (e non c’erano ancora gli smartphone). Entra il vecchio e severo professore, mentre le ragazze e i ragazzi si affrettano ad andare al proprio posto. Per terra è rimasto un preservativo, il prof lo raccoglie e chiede “di chi è questo?”. Dopo il primo silenzio, il prof ripete la domanda e un ragazzo si alza, dicendo “è mio”. Sta per scattare la punizione, ma uno dopo l’altro, i compagni e le compagne, tutte e tutti, si alzano dicendo “è mio”. Quello spot è figlio anche della paura dell’aids, ma racconta qualcosa di più, la nostra maggiore consapevolezza, la nostra voglia di farlo – e questo è abbastanza naturale – mettendoci anche un po’ di testa – e questo è un po’ meno naturale, soprattutto per noi maschi, che tendiamo a essere presi più dall’aspetto puramente “meccanico” e dalle sue misurazioni. Non so se oggi quello spot sarebbe altrettanto efficace – temo di no, perché mi pare che ora la “meccanica” trionfi – ma allora ci parve bello identificarci in quelle ragazze e in quei ragazzi coraggiosi e consapevoli.
Quello spot è anche stato possibile grazie a quel bacio di un medico, il più importante che allora in Italia si occupava di questa malattia – ed era un tempo in cui ai medici si dava credito – a una ragazza sieropositiva, per dirci che con un bacio non si trasmette il virus e che quindi i malati potevano continuare a vivere insieme agli altri.
Quella paura è servita anche a noi per riflettere sulla sessualità, su quanto possa essere complessa, e sui pregiudizi verso quelli che allora erano considerati “deviati” o “non normali”. Molti giudicano ancora così le persone omosessuali, ma quella paura ci aiutò a pensare. Forse allora potemmo ingenuamente pensare che Freddy e Pier Vittorio non erano morti invano, che stava nascendo una società con meno pregiudizi. Non è stato così ovviamente, vista la merda in cui siamo.
E intanto abbiamo smesso di parlare di aids, abbiamo smesso di avere paura, perché anche questa malattia è diventata di classe. Di aids si muore soprattutto in Africa – la Nigeria è il paese con il più alto numero di morti nel 2016 – si muore in India, si muore nei paesi più poveri del mondo. Si muore sempre meno in Europa e negli Stati Uniti.
Non so quanti dei ragazzini che sono andati a vedere “Bohemian Rhapsody” abbiano capito cose è stato per noi l’aids. Abbiamo il dovere di spiegarglielo, senza ipocrisie, senza nascondere le nostre paure e anche qualche pregiudizio che abbiamo continuato a portarci dietro. Non per farli crescere con la paura, ma con una consapevolezza diversa. Accettiamo che vedano le nostre debolezze di oggi, magari riconosceranno la nostra forza di ieri.

se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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