È ancora solo un braccio di ferro ma rischia di tramutarsi in un duello all’ultimo sangue e ieri sia Di Maio che la Lega hanno fatto un passo in quella direzione. L’oggetto del contendere è, al solito, la Tav, ma confluiscono su quel nodo anche le altre tensioni accumulatesi nell’ultima settimana: l’autorizzazione a procedere contro Salvini e la recessione ormai conclamata. Sinora il vicepremier a cinque stelle aveva lasciato che a scoprirsi con dichiarazioni ultimative fossero i suoi ministri e sottosegretari. Ieri invece è entrato in partita in prima persona, e con dichiarazioni da ponti bruciati alle spalle: «Finché ci sarà M5S al governo la Tav non ha storia né futuro. Quando i grandi potentati che hanno ridotto il Paese in queste condizioni tifano per un’opera inutile come la Tav, M5S sta col popolo. Con noi al governo il cantiere non inizierà a fare il buco. Discorso chiuso». Di Battista rincara e va giù greve: «Se la Lega vuole andare avanti con un buco che costa 20 miliardi e non serve ai cittadini tornasse con Berlusconi senza rompere i coglioni». L’irrigidimento di Di Maio si spiega con i motivi noti, quelli spiegati da Giuseppe Conte a Frau Merkel, ma anche con l’avvicinarsi di una scelta difficile come quella sul voto nella giunta delle immunità del senato. Una scelta non è ancora stata fatta ma le probabilità che M5S respinga una richiesta di autorizzazione a procedere che suonerebbe come sconfessione piena delle politiche del governo e probabilmente anche come campana a morto per lo stesso sono alte. Tenere duro sulla Tav diventerebbe in questo caso davvero questione di vita o di morte per Di Maio e per tutto il Movimento. La risposta di Salvini è, al solito, falsamente conciliante. «Troveremo una soluzione, come sempre. Se l’opera riduce tempi e inquinamento ed è conveniente, perché non farla?». Il capo leghista non cade neppure nella provocazione di Di Battista: «Ma la Tav mica serve a Salvini. Serve agli italiani», replica. Tanto per essere sicuro che nessuno si faccia prendere la mano e scivoli nella rissa il leghista dirama anche un ordine di scuderia preciso: «Nessuno deve replicare. Gestisco io la faccenda». Ma se la gestione del “duro” Salvini è in apparenza morbida, sia pure senza arretrare di un passo sul vero nodo, cioè sulla costruzione del tunnel, da via Bellerio vengono fatti filtrare informalmente, e certo non senza il semaforo verde del capo, toni ben diversi: «Per cancellare la Tav bisogna correggere con voto parlamentare la legge Obiettivo e noi voteremmo sì con tutte le altre forze politiche tranne M5S». Insomma, o si trova una mediazione, magari con il referendum regionale che le stesse fonti di via Bellerio non a caso rilanciano, oppure si va alla conta in parlamento e lì non c’è partita. Solo che a quel punto proseguire con il governo diventerebbe impossibile. Se la linea dura del Movimento 5 Stelle si spiega anche con la necessità di parare in anticipo il danno d’immagine derivato dal voto sull’autorizzazione a procedere contro il ministro degli interni, quella della Lega risente chiaramente dei venti di crisi e recessione. In un quadro simile, affondare la Tav vorrebbe dire rompere forse senza possibilità di recupero con la principale area di riferimento, da Confindustria in giù. La Lega non se lo può permettere. Prima che l’incendio divampi si fa sentire anche il premier. Non dice niente di nuovo. Ricorda che la revisione del progetto è nel contratto. Conferma che la scelta verrà fatta «non sulla base di sensibilità personali o di una singola forza politica» ma su quella dell’analisi costi-benefici. La quale peraltro continua a essere tenuta nel cassetto per evitare l’incidente. Toninelli assicura che arriverà a giorni, ma è quanto viene ripetuto da mesi. Così, fra Tav, voto in giunta al senato, nervi resi fragilissimi dalla temperie economica, insofferenza di Conte nei confronti di Savona, che è alla base del tentativo di spostare il ministro alla guida della Consob, peccato che sia impossibile per legge, la nave gialloverde naviga verso la tempesta. Nessuno vuole la crisi, «Non facciamoci dividere» è l’appello serale di Di Maio rivolto a Salvini. Ma neppure si può restare immobili e ormai ogni mossa è un rischio.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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