FILE - This Aug. 29, 2017 file photo distributed on Aug. 30, 2017 by the North Korean government shows what was said to be the test launch of a Hwasong-12 intermediate range missile in Pyongyang, North Korea. An unknown number of nuclear warheads. Stockpiles of plutonium and uranium. ICBMs. Weapons factories - and the scientists who work at them. The list of what it would take for the “complete denuclearization” of North Korea is long. North Korea has said it’s willing to deal away its entire nuclear arsenal if the United States provides it with a reliable security assurance and other benefits. (Korean Central News Agency/Korea News Service via AP, File)

di Franco Astengo

L’amministrazione Trump ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dal trattato INF stipulato nel 1987 con l‘URSS.

Un trattato che consentì la drastica riduzione dei missili schierati da una parte e dall’altra in Europa secondo la linea dell’allora ancora vigente “cortina di ferro”.

 Con quel trattato l’escalation che era cominciata con lo schieramento dei Phersing e dei Cruise americani e degli SS20 sovietici.

Per molti commentatori la mossa annunciata in questi giorni dagli USA potrebbe preludere a una nuova rincorsa agli armamenti, tanto più pericolosa oggi in una fase in cui gli attori globali sono cresciuti di numero e la tecnologia atomica è in possesso di molti Paesi in più rispetto a quasi quarant’anni fa.

Al puro scopo di elaborare un abbozzo di ricostruzione storica destinata semplicemente a ricordare come si muovevano le cose al tempo del bipolarismo si è così pensato di ricostruire la fase che portò appunto all’apertura della distensione e agli accordi tra le due, in allora, superpotenze.

Michail Gorbacev fu eletto segretario generale del PCUS l’11 gennaio 1985 avendo di fronte l’immane compito di risolvere i problemi rimasti sul tappeto alla morte di Chernenko : il legame fra politica estera e politica interna si affacciava in tutta la sua portata, dimostrando come in questo caso le scelte internazionali fossero strumentali rispetto ai problemi interni.

All’avvio del suo mandato Gorbacev trovò la situazione internazionale migliorata rispetto al periodo dell’interruzione della Conferenza di Ginevra che si era aperta nel 1981: nel novembre 1984, al momento della rielezione di Reagan, era stata, infatti, raggiunta un’intesa di massima per la ripresa dei negoziati che, in effetti, si riavviarono il 12 marzo 1985.

Si presentarono subito notevoli ostacoli con l’opposizione sovietica alla cosiddetta “Strategic Defense Iniziative (SDI) ” lanciata da Reagan e Weinberger.

La SDI, la cui applicazione fu comunque limitata, imponeva la necessità di dimostrare il controllo di risorse tecnologiche che solo una società avanzata poteva mettere in campo, perciò poneva ai sovietici il dilemma se dimostrare la loro arretratezza in attesa di un difficile recupero o rivelare subito la loro debolezza, nella speranza di un condono americano.

Appena eletto Gorbacev scelse la seconda strada e diede alla disputa sulla rinuncia americana alla SDI il valore di una condizione per un accordo più generale.

Questa discussione attraversò una prima fase acuta tra il settembre 1985, quando i sovietici presentarono le loro proposte disarmo e il 20-21 novembre dello stesso anno, quando nel corso del vertice di Ginevra non fu raggiunto alcun risultato concreto ma le due parti s’impegnarono a proseguire i negoziati intrapresi accettando di discutere sulla base del principio della riduzione del 50% del numero delle armi nucleari posseduto da ciascuna.

Si usò la definizione “armi nucleari” per significare che il negoziato non aveva ancora sciolto il nodo degli euromissili: i sovietici li consideravano armamenti strategici, quindi da includere nel calcolo, gli americani armamenti di teatro sui negoziare separatamente.

Fra il gennaio del 1986 e l’ottobre dello stesso anno la questione della rinuncia alla SDI assunse l’aspetto di questione principale: tutte le proposte di compromesso avanzate dai sovietici furono respinte dagli americani.

I governanti dell’URSS cercarono di avvicinare le posizioni annunciando un piano di ritiro dall’Afghanistan ma l’incidente di Chernobyl, nell’aprile dello stesso 1986, mise in luce l’arretratezza tecnologica degli impianti nucleari sovietici.

Il nodo di fondo di tutta questa fase, infatti, era costituito dall’accumularsi da parte sovietica di un deficit tecnologico nei settori strategici frutto di difficoltà insieme economiche e politiche.

Questo fatto pose sulla difensiva i sovietici e Reagan, costata la fragilità dell’avversario, dichiarò che gli USA non si ritenevano più vincolati dal trattato SALT II stipulato nel 1979 e che non era mai stato ratificato dagli stessi USA.

A Reykjavik l’11-12 ottobre 1986 si svolse il secondo incontro Reagan – Gorbacev: il clima apparve costruttivo ma il negoziato restò bloccato sul nodo della SDI.

In quel vertice doveva rivelarsi se la posizione sovietica, alla ricerca di un compromesso, era ancora legata alla politica di distensione perseguita da Breznev oppure se era dovuta al riconoscimento della debolezza sovietica con l’ammissione che la politica portata avanti da Stalin e dai suoi successori a partire dal 1945 era fallita nel tentativo di raggiungere la parità strategica con gli USA per poi tentare di superarli.

Tutto il 1987 fu occupato dalle diplomazie a trovare una via d’uscita dallo stallo di Reykjavik facendo sì che non si evidenziassero le rinunce sovietiche: intanto, sul piano interno, a Natale 1986 Gorbacev aveva compiuto un gesto politico di grande significato consentendo ad Andrej Sacharov di riprendere pienamente l’insegnamento a Mosca.

Rispetto al ruolo della NATO, che risultava vincolante per la posizione americana, un grande passo in avanti fu compiuto dal cancelliere tedesco Kohl che nell’agosto del 1987 si disse pronto a rinunciare a nuovi missili, purché sovietici e americani si accordassero per distruggere tutti i missili a medio e corto raggio esistenti in Europa.

La strada era aperta verso il terzo e conclusivo vertice tra Reagan e Gorbacev, svoltosi a Washington tra il 7 e il 10 dicembre 1987: per la prima volta nel secondo dopoguerra in quella sede s’indicò la possibilità di distruzione, anziché di limitazione, di un certo tipo di armamenti.

Il trattato firmato l’8 dicembre stabiliva, infatti, secondo un’intesa già pronta da settembre, che entro tre anni tutti i missili della portata compresa tra i 500 e i 5.500 chilometri fossero distrutti, con l’eccezione dei missili appartenenti ai sistemi nucleari nazionali di Francia e Gran Bretagna.

L’accordo prevedeva anche un meccanismo di ispezioni nelle basi per la verifica dei rispettivi adempimenti: in questo senso era necessario anche un trattato speciale con i cinque paesi della NATO che ospitavano euromissili: la Germania Ovest, la Gran Bretagna, l’Italia, il Belgio e l’Olanda.

Il limite dell’accordo, dal punto di vista europeo, consisteva nella mancata eliminazione dei missili tattici, cioè di quelli dalla gittata inferiore a 500 chilometri, utilizzabili anche in scontri di natura convenzionale.

A queste limitazioni si aggiungeva l’accordo per il numero di testate per i 154 missili più potenti (154 missili con non più di 1.540 testate) e l’impegno a continuare la discussione sui bombardieri strategici e sui missili intercontinentali mobili e infine la previsione secondo la quale il numero totale delle testate nucleari non dovesse superare le 4.900 unità per ciascuna delle due parti.

L’ultimo vertice ufficiale tra Reagan e Gorbacev, tenuto a Mosca tra il 29 maggio e il 2 giugno 1988, si concluse senza che un accordo sui missili strategici fosse raggiunto.

Con l’avvio della presidenza Bush ebbe inizio la fase conclusiva del processo di smantellamento dell’arsenale giuridico – politico – militare della guerra fredda in Europa.

Si svolsero così i vertici di Malta del 2/3 dicembre 1989 e la conferenza di Ottawa del 13 febbraio 1990: in quest’ultima occasione i rappresentanti della NATO e del Patto di Varsavia stabilirono in 195.000 uomini il livello massimo che le truppe americane e sovietiche avrebbero dovuto raggiungere in Europa.

Dopo l’incontro tra Bush e Gorbacev avvenuto a Camp David tra il 30 maggio e il 3 giugno 1990 i negoziati per il disarmo fecero un altro passo avanti con la conclusione delle conversazioni iniziate a Vienna nel 1973 per la “Mutua e Bilanciata riduzione degli armamenti” (MBFR).

Si trattò di due accordi: con il secondo, sottoscritto da tutti i paesi della CSCE e firmato il 21 novembre 1990 si definirono i principi della “Carta di Parigi per una nuova Europa”, cioè le regole della futura convivenza pacifica nel continente europeo.

Dopo quest’accordo, la via verso l’intesa sulle armi strategiche risultò ulteriormente spianata e l’iter del negoziato fu concluso il 31 luglio 1991, quando Bush e Gorbacev firmarono a Mosca il trattato START I, cioè lo Strategic Armaments Limitation Treaty, che chiudeva il lungo lavoro iniziato dai trattati SALT e proseguito dal 1981 con i negoziati di Ginevra.

Dopo di allora l’Unione Sovietica entrò in una fase di crisi sempre più convulsa fino alla cessazione formale della sua esistenza nel dicembre 1991.

Quest’abbozzo di ricostruzione storica si ferma a questo punto.

 L’occasione deve essere colte per esprimere una forte preoccupazione perché la scelta compiuta in questi giorni dall’amministrazione USA non significhi un pauroso salto nel buio.

 C’e da ricordare ancora che lo scioglimento dell’URSS e l’assunzione da parte degli USA del ruolo di “poliziotto del mondo” e di “paese esportatore della democrazia” non ha certo significato l’aprirsi, nel corso dell’ultimo trentennio” di un periodo di pace ma piuttosto di tragiche convulsioni in diversi teatri strategici in quadro di crisi molto complessa che oggi con la presidenza Trump tende a inasprirsi aumentando la possibilità di tragici scenari a livello globale.

E’ stato consultato il testo “ Storia delle relazioni internazionali 1918 – 1992” di Ennio Di Nolfo, Laterza Roma – Bari 1994.

Di AFV

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