Sosteneva Rousseau nel “Du contract social, ou principes du droit politique” che peculiarità del governo, caratteristica proprio intrinseca sua, è l’essere una promanazione dei deleganti, quindi del popolo che può sostituirlo quando vuole. Un popolo, dunque l’intero complesso sociale di una comunità costituita come tale su un determinato territorio, con precise comuni caratteristiche linguistiche, tradizioni e comportamenti quotidiani che uniscono individui singoli. Un popolo intero, dunque, è “sovrano”, come del resto recita anche la nostra Costituzione, in una democrazia. Soprattutto se parlamentare a tutto tondo (ma “di diritto” e “di fatto” qui come non mai sono fieri avversari…). E’ una definizione che somiglia molto a quella che Mazzini diede ad una popolana genevese, nei carruggi, quando un giorno venne interrogato così: “Signore, mi saprebbe dire che cos’è la repubblica?” Romano Bracalini, autore della biografia uscita nel pieno del tempo tangentopolizio (e che infatti riportava il sottotitolo: “Il sogno dell’Italia onesta”), racconta che l’apostolo dell’unità d’Italia rispose: “La repubblica è il governo nel quale il popolo elegge i suoi rappresentanti al governo e, se questi deviano dal loro compito, li caccia e li sostituisce“. La democrazia e la forma repubblicana che prende nell’istituzione dello Stato sono dunque descritte come la concretizzazione della massima partecipazione popolare al processo di edificazione strutturale del governo, inteso come il complesso di poteri che si reggono vicendevolmente secondo regole ben precise, secondo una “costituzione”. Oggi, invece, seguendo il filone ormai storico dello stiramento semantico delle parole, cominciato con l’abuso di una tra le più importanti, “libertà”, anche la parola “democrazia” torna ad assumere connotati che non le sono per niente propri e servono quindi degli aggettivi per proteggere l’originario significato del termina. “Democrazia autoriaria“, “democratura“, e via dicendo… La democrazia della rete, la democrazia telematica: era, sarebbe, sarà (a questo punto vien da mettere il punto interrogativo sul futuro del verbo essere) ancora il “programma massimo” del Movimento 5 stelle? Democrazia che si rispetti, in quanto regime di rappresentanza politica della volontà popolare, dovrebbe tenere conto della “chiarezza” che il delegato deve avere nei confronti del delegante e quindi dovrebbe mettere proprio il popolo nella condizione di poter scegliere senza troppi bizantinismi, artefatti che sofisticano un concetto elementare. Invece, come sovente accade proprio nel momento del voto, qui zoppica la democrazia reale, quella intangibile ma esistente, proprio come l’aria: c’è ma non si vede. Ed è essenziale per la vita in generale, quanto più per la specie umana. Così claudica paurosamente la democrazia telematica, quella della piattaforma Rousseau: lentezza tecnica, votazioni che si perdono in pagine senza conferma dell’avvenuta espressione di consenso o dissenso su un quesito e, infine, proprio riguardo questo, modifica delle domande fatte al popolo dei Cinquestelle. Sulla disciplina che dovrebbero tenere i senatori del Movimento 5 Stelle in merito all’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro dell’Interno Salvini votano in tutto soltanto 52.000 iscritti: di questi il 59,05% si esprime contro la concessione, il restante 40,95% a favore. La prima osservazione è che, pur in presenza di numeri infinitamente piccoli rispetto ai quasi 11 milioni di voti ottenuti dal M5S alle ultime elezioni politiche, la decisione ha un valore enorme sul piano della formalità: impegna infatti i senatori (che non hanno vincolo di mandato, proprio come i deputati) a votare “no” alla richiesta dei magistrati per mettere sotto processo il ministro dell’Interno. Indubbiamente il voto è legittimo, rispettabile, ma il percorso con cui ci si è arrivati è quanto meno criticabile e discutibile. Si parta dalla domanda fatta agli iscritti e cambiata (come faceva notare ieri il “Corriere della Sera”) in itinere. Le domande originarie risultavano essere: “Il ritardo dello sbarco della nave Diciotti, per redistribuire i migranti nei vari paesi europei, è avvenuto per la tutela di un interesse dello Stato? – Sì, quindi si nega l’autorizzazione a procedere; – No, quindi si concede l’autorizzazione a procedere;”; sostituite successivamente così: “Il ritardo dello sbarco della nave Diciotti, per redistribuire i migranti nei vari paesi europei, è avvenuto per la tutela di un interesse dello Stato? – Si, è avvenuto per la tutela di un interesse dello Stato, quindi deve essere negata l’autorizzazione a procedere. – No, non è avvenuto per la tutela di un interesse dello Stato, quindi deve essere approvata l’autorizzazione a procedere.”. Nella seconda versione le risposte contengono l’aggiunta “per la tutela di un interesse dello Stato“, peraltro già presente nella domanda, così da rafforzare la convinzione che l’interesse dello Stato comunque abbia avuto un ruolo nella vicenda, mentre l’accusa di “sequestro di persona” formulata dai magistrati diventa un semplice “ritardo dello sbarco”, a significare che l’intenzione di farli sbarcare c’era, eccome! Non parrebbe così, ripercorrendo la storia disgraziata di quegli oltre cento migranti, ma tant’è… 59 a 41, i numeri sono chiari, seppure derivanti da una ben misera partecipazione al voto: l’ultimo dato disponibile sulle iscrizioni al M5S ce lo fornisce una fonte indiretta, Wikipedia, che nel 2016 parla di 135.023 aderenti. Per gli anni successivi non si hanno riscontri. Dunque, presumiamo che abbia votato un terzo degli aderenti. Di questi quasi la metà ha mantenuto fede al principio originario del movimento in merito all’immunità parlamentare. Cosa dobbiamo essere portati a pensare? Che metà dei votanti in rappresentanza di metà del movimento sono volati tra le braccia di Salvini abbandonando lo spirito fondatore in materia di autorizzazioni a procedere? Oppure che si tratta di un “caso specifico”, di una eccezione e che quindi anche chi ha votato per il mantenimento dell’immunità parlamentare non ha in fin dei conti tradito le fondamenta del M5S? La si pensi un po’ come si vuole, ciò che risulta evidente, oggettivo, è un allontanamento progressivo e costante che, proprio nel passaggio dalla lotta di piazza al governo del Paese, il Movimento 5 Stelle ha operato nei suoi stessi confronti, mutando posizioni che venivano date per storicamente acquisite come pilastri cardine dell’identità stessa di un soggetto politico privo di “ideologia”, né di destra e nemmeno di sinistra, che però voleva fondare una nuova fisionomia politica attraverso la trasformazione della coscienza sociale in coscienza dell’onestà individuale su una novella morale collettiva priva di riferimenti storici legati alle fondamenta resistenziali della Repubblica. Qualcuno azzarda che sia iniziata la fine del M5S o, quanto meno, un inesorabile declino tutto a favore della Lega. Elettoralmente parlando è abbastanza certo che dei riflessi in merito si avranno sia in Sardegna sia in Piemonte: il cedimento dei consensi tuttavia non porta con sé un immediato tracollo organizzativo che, peraltro, i Cinquestelle hanno detto di voler invertire come senso di marcia innestato dalla debacle abruzzese proprio ripartendo dalla politica locale, strutturando il movimento, affiancando ad una idea di democrazia partecipativa telematica una visione più “classica” della forma-partito. Intanto però il movimento si spacca, i senatori sono divisi tra il rispetto del voto “popolare” degli iscritti e i princìpi fondamentali anti-ideologici dell’onestà come programma politico totale e totalizzante, della giustizia, del giusto processo, dell’uguaglianza per tutti i cittadini: anche per i parlamentari da loro chiamati proprio “cittadini” dall’inizio della prima legislatura per l’M5S. Tante sono le contraddizioni che emergono e che un voto di 52.000 persone non può dirimere: non ne ha la forza, anche se ne mantiene il valore simbolico di indirizzo politico. La forza sarebbe stata maggiore se si fossero svolti altri tipi di pantomime, come le primarie tanto amate dal centrosinistra. Se fossero andati a votare almeno uno o due milioni di persone, allora il peso del voto sarebbe stato differente, seppur comunque alieno alla cultura democratica di un Paese che ha una Costituzione che prevede la democrazia diretta a suffragio universale. Siamo ancora molto, troppo lontani da un recupero dei veri valori costituzionali. La democrazia della rete, per ora, prevale sulla democrazia reale e il Parlamento, sembrerebbe, si deve adeguare. Di cinque stelle ne rimangono due, originarie: due stelle e mezza anzi. Pur non avendo mai condiviso quasi nulla del M5S, va dato adito a quel 41% circa di votanti per l’autorizzazione a procedere di essere rimasto fedele ai princìpi ispiratori del movimento. Si tratta di 21.469 di irriducibili, di puristi, di intransigenti? Può essere, tuttavia è sempre più apprezzabile una certa coerenza rispetto alla compromesso dettato da una posizione di governo che sta diventando un capestro

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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