Fuori dai “social” Il dibattito politico, da quando esistono i “social network”, ha impoverito il carattere di vicinanza, di riunione nelle sedi debite dove si dovrebbe discutere e operare un confronto reale tra opinioni anche profondamente differenti sul breve, medio e lungo termine di una strategia che miri al conseguimento di un risultato. Invece trascorriamo le giornate a dilaniarci su Facebook, forse un poco meno su Twitter, non cogliamo gli accenti e le tonalità dei nostri concetti, nemmeno possiamo vederci nelle nostre espressioni, nei cenni di approvazione o nelle smorfie di dissenso che possiamo assumere quando invece siamo viso a viso. Dunque, è bene uscire dai “social” quando si affrontano questioni di una certa importanza e recuperare almeno questa dimensione, quella dello scritto ragionato che si rivolge alla mente di tutte e tutti e che non cerca necessariamente approvazione con i “like” ma che, semmai, incarna la vera essenza della speculazione: stimolare la formazione di un dubbio, consolidare una certezza, aprire un varco in un pregiudizio, accrescere o diminuire il numero di chi può pensarla o meno similmente a noi stessi. Anche così ci si rifà ad un metodo marxiano che è quello della scrittura, della risposta polemica, del contraddittorio per lontananza che ha il pregio però di rivolgersi ad un pubblico più vasto rispetto a colui o colei cui si rivolge la replica. Un dialogo “ampio” Veniamo al dunque: ieri leggo proprio su Facebook il pensiero di un compagno che, in sostanza, afferma necessario allargare gli orizzonti del dialogo tra Rifondazione Comunista e le forze della sinistra. Fino ad un certo punto mi dico: condivido: dobbiamo avere questo ruolo ora più che mai, ossia provare a tenere insieme forze microbiche, eppure esistenti, che rappresentano un variegato mondo dell’antiliberismo e dell’anticapitalismo e che si vogliono proporre alle prossime votazioni europee in una lista unitaria per eleggere deputati italiani nel gruppo del GUE/NGL (Sinistra unita europea, Sinistra verde nordica). L’obiettivo è ardito: bisogna superare, in un sistema elettorale proporzionale, il 4% dei voti per poter accedere alla suddivisione dei seggi nei macrocollegi regionali italiani. Significa accumulare un consenso di circa 1.600.000 voti se si considera una platea di votanti pari al 60% degli aventi diritto. Non è cosa da poco e, siccome si vota a maggio, visto che siamo già a fine febbraio, dovremmo avere pronto un nome, un simbolo, quindi avere un accordo tra forze comuniste, socialiste di sinistra, ambientaliste e libertarie per diventare “riconoscibili” nei confronti di un elettorato sempre più nel marasma se si tratta di capire cosa succede a sinistra. Al momento non esiste nulla di tutto questo: né nome, né simbolo e nemmeno un perimetro programmatico o anche soltanto una idea delle forze che possono partecipare alla costituzione di una lista unitaria per evitare la dispersione del voto e condannare la povera, residuale sinistra italica all’estinzione. Veti contrapposti, posizioni pregiudiziali, acredini di piccolo e lungo termine, primedonne un po’ ovunque, tutto ciò impedisce ad oggi di sapere e di avere contezza di quale sarà il destino della sinistra di alternativa in questo pandemonio di non-posizioni politiche. Vado avanti a leggere il pensiero del compagno su Facebook e scopro che, per evitare l’”autodistruzione”, Rifondazione Comunista (che porta in dote il simbolo del Partito della Sinistra Europea che eviterebbe la raccolta delle firme per la presentazione della lista, fatto non di poco conto, tra l’altro) dovrebbe “aprire un ragionamento con altre aree politiche, dai verdi a Zingaretti, per sperare di non ridursi a testimonianza del nulla“. Strabuzzo un po’ gli occhi, pulisco le lenti, rimetto gli occhiali e leggo ancora una volta: sì, cita proprio Zingaretti, quindi un probabile futuro segretario di quel Partito Democratico che giustamente definiamo come parte del problema che viviamo oggi, se per “problema” intendiamo la torsione autoritaria di una società spinta all’eccesso del liberismo e che per di più ha visto aprire la strade del governo del Paese alle peggiori forze di una destra xenofoba e crudelista proprio dall’allontanamento popolare dal voto e dai valori della sinistra grazie al comportamento dei governi a guida PD. Ero convinto che avessimo superato, almeno noi che ogni giorno ci occupiamo intensamente e intensivamente di politica, l’elaborazione del lutto per un centrosinistra impossibile da resuscitare e che, pertanto, avessimo deciso di riqualificare la sinistra proprio come tale e non facendole ancora indossare la maschera del partito economicamente spalmato sul liberismo e sui valori della globalizzazione capitalistica mostrandolo come avamposto cui aggregarsi per “battere le destre”. Qui le sindromi sono molte: “del centrosinistra”, “del meno peggio”, “del battere le destre”, “del governismo” e via dicendo… Tutte molto pericolose e tutte con una linea di continuità: la divisione della sinistra di alternativa in nome di una “responsabilità” necessaria ed accompagnata ad una necessità di “pragmatismo” che, senza il compromesso con la “forza più grande”, non è possibile mettere in pratica. L’invocazione della “responsabilità” è stata molte volte adoperata proprio in circostanze simili a quelle in cui viviamo oggi: c’è da dire che oggi assistiamo ad una recrudescenza di tendenze neofasciste, autoritarismi e democrature che ci riportano alla mente il periodo post-bellico e pre-nazista. Dobbiamo essere consapevoli di ciò: l’avanzata delle forze di destra populista e xenofoba in molti paesi europei è frutto di una crisi economica che ha ammorbato le classi più deboli perché su di loro i governi politici e tecnici “democratici” hanno scaricato tutto il peso di sacrifici da non far pagare al grande capitale, ai ricchi, ai padroni e all’alta finanza dei banchieri. Capitale economico e capitale sociale Pochi giorni fa, a nome di tutto il PD, quindi anche di Zingaretti, il presidente del partito Orfini ha firmato il “manifesto di Calenda” che ha per titolo “Siamo europei“. E’ una lunga sequela di buoni propositi, di passaggio addirittura “Dal capitale economico al capitale sociale“: difficile la comprensione dell’espressione “capitale sociale” a meno che non si tratti della messa in discussione della proprietà privata dei mezzi di produzione e del sistema bancario, ma leggendo un poco più avanti mi sono accorto che non è così. Il capitolo suddetto recita: “Una dura lezione che molti governi occidentali hanno imparato negli ultimi anni è che una robusta crescita economica non si accompagna necessariamente a un’equa distribuzione della ricchezza, delle opportunità e del progresso complessivo della società. Gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’agenda 2030 delle Nazioni Unite devono essere inclusi, al pari di quelli relativi alla stabilità finanziaria, nella governance dell’Unione.”. La parola chiave è “governance“. Bisogna dunque stabilire, secondo Calenda e il PD (firmatario, va opportunamente ricordato, del manifesto), una unità di intenti a livello continentale per far crescere l’economia dei singoli stati: l’avrebbe saputo scrivere anche uno studente di scuola media, magari superiore… Ciò che conta è che il manifesto non mette in discussione l’Europa delle banche e non propone nessuna Europa dei popoli socialmente intesa come tale. Critica l’orientamento dei cosiddetti “paesi di Visegrad”, attacca i nazionalismi ma non promuove certo una svolta sociale. Promette di volersi impegnare per un “New deal” che sia legato allo sviluppo della conoscenza ma non critica la ragion d’essere dell’Europa di oggi, non attacca i trattati intercontinentali che metteranno alla fame interi popoli. Fonda il suo principio economico su un “bilancio europeo” che dovrà finanziare anche lo stato-sociale ma, tutto impiantato su una logica liberista (quindi ferreamente legata al mercato capitalistico) per cui all’80% della composizione derivante da risorse degli stati si dovranno sostituire “risorse proprie”. Immagino si intenda “risorse europee”, quindi comunitarie. Ma l’Unione non è uno Stato unitario, nemmeno è una confederazione di Stati: è un patto fondato sull’economia dei singoli componenti che interagiscono tra loro per mantenere un equilibrio politico interno (al fine di evitare predomini imperialistici come già accaduto nel corso della storia con Spagna, Asburgo, Francia e Germania) a fronte di una concorrenza tra poli capitalistici sempre più potenti: nonostante la Cina accresca e sviluppi il suo mercato al di là dell’Asia, spingendosi fino in Africa; nonostante gli Stati Uniti giochino nuovamente ad inglobare nella loro sfera di influenza non solo il Messico e il Canada ma gettino l’occhio sull’America Latina, l’Europa rimane il bacino economico più grande al mondo e con maggiore potenziale di sviluppo. Nel “manifesto di Calenda”, dunque, tutto vi è tranne che una analisi critica del capitalismo: semmai un tiepido riformismo liberal-liberista che prova a creare tanti scenari di “pace sociale” per evitare che la lotta di classe si sviluppi e mostrare ancora una volta il compito di una sinistra moderata, magari di un ritorno al centrosinistra (così tanto caldeggiato da Zingaretti), che non è più legato alla tesi riformistica classica: il capitalismo sta per crollare dunque attendiamo che crolli migliorando la condizione degli sfruttati. Formula di una rinascita Da decenni il riformismo non fa più rima con “socialismo” ma semmai con “liberismo”: da quando in Italia si è creata l’anomalia del PD, quindi l’unione in un unico partito di forze politiche socialdemocratiche e cattoliche in un contenitore che fa sempre più fatica a definirsi (c’è chi vi ha aderito e vi aderisce perché lo considera “il centro”; altri perché è ancora visto come l’”erede” della cordata post-PCI, PDS-DS; altri ancora perché, privi di una collocazione liberale o repubblicana, lì hanno trovato una collocazione per l’appunto classicamente definibile come “moderata), da allora anche la sinistra di alternativa è tornata a perdere la bussola del proprio collocamento nella scena politica e della rappresentanza sociale. La tendenza al “governismo” ha prevalso sovente rispetto all’individuazione di una formula di rinascita per le istanze di giustizia sociale e di uguaglianza civile unito in un nuovo progressismo di stampo rivoluzionario, lontano dunque da quel riformismo che, scevro dalle sue originarie ed originali interpretazioni attendiste di caduta del regime del capitale, si era via via trasformato in un sostegno al sistema economico dominante. La tendenza al sostegno della teoria del “meno peggio”, tattica peraltro già sperimentata ampiamente anche nell’epoca verace e vorace del berlusconismo d’antan, avrebbe dovuto insegnarci che non è appoggiando, sostenendo ed incrementando le proposte politiche che mantengono una forma rispettabilmente “repubblicana” (quindi laica) nella concezione delle libertà civili e che, parimenti, esercitano da Palazzo Chigi politiche economiche di decurtamento dei diritti sociali più elementari e delle fondamenta delle garanzie di sopravvivenza per un moderno proletariato incosciente di sé, che si può far avanzare il “meno peggio” del “meno peggio” stesso. Ciò che si diventa, in pratica: non il “meglio”, ma il meno del meno del meno peggio che si trova su piazza. Qui riacchiappiamo Zingaretti e il discorso iniziale: oggi la situazione è così grave da impensierire giustamente chi un po’ di buon senso lo conserva e chi si rende conto degli attuali rapporti di forza sul piano politico ed anche su quello delle dinamiche economiche intercontinentali. Ma purtroppo in Italia, ad oggi, non è venuta meno solo la sinistra di alternativa come protagonista di spinte verso un riformismo più energico esercitato spesso con indolenza da alleanze di centrosinistra dedite alla protezione dei privilegi e del profitto privato. E’ venuta meno anche la sinistra socialdemocratica, quella riformista per antonomasia, quella che nel lontano 1994 aveva consentito, su una triplice polarizzazione delle forze politiche, la creazione della coalizione dei “Progressisti”. Ecco, pensare di rieditare i “Progressisti” pensando ad un dialogo ampio tra Rifondazione Comunista – ad esempio – e Zingaretti vincitore di primarie per la segreteria nazionale del PD, è illudersi: non soltanto per via delle mutate condizioni sociali, politiche ed economiche ma soprattutto perché il punto di partenza che diede vita a quella alleanza non esiste più. Dal PDS alla Rifondazione Comunista delle origini, dai Verdi ai Cristiano Sociali, dalla Rete ad Alleanza Democratica di Ayala e Bordon, una sequela di forze di sinistra diversamente orientate oggi semplicemente non esiste. Non esiste a partire dall’opposizione al governo Conte, tanto da far dire ai commentatori ex-PD o ex-renziani che dir si voglia, che non c’è alternativa al governo gialloverde. Lo ha capito tanto bene Matteo Salvini da iniziare a proporre anche localmente alleanze con i Cinquestelle piuttosto che con la vecchia coalizione di centrodestra con cui, pure, vince in Abruzzo e certamente vincerà in Sardegna. Per una lista della Sinistra Europea in Italia Ho ripetuto spesso che il problema non è soltanto squisitamente politico ma, nell’essere anche tale, è soprattutto “culturale”: a partire dalla individuazione di un perimetro entro cui certi valori possono stare al sicuro ed essere portati avanti senza velleità di governismo o di attenuamento dei disvalori del capitalismo e della sua forma liberista moderna. Manca una coscienza sociale (socialista e comunista) nell’essere consapevoli di cosa deve poter voler dire oggi “essere di sinistra”: non può voler dire aprire a forze come il PD, anche se vincerà Zingaretti nella corsa alla segretaria nazionale, perché significherebbe che alla necessità della riproposizione valoriale, culturale e politica di una alternativa a questo sistema economico, cominciando proprio da una seria lotta alle destre neonaziste e neofasciste che vorrebbero rialzare la testa un po’ ovunque, noi proporremmo un confronto con uno schieramento politico che accetta le cause per cui oggi ci troviamo nella situazione di pericolo tanto per la democrazia reale quanto per quella rappresentativa. Ampliare il confronto con forze come il PD vorrebbe dire perdere nuovamente l’anima, perdere la valutazione che dobbiamo tornare a fare sulle cause specifiche che hanno aperto la via al populismo sovranista e che mettono in pericolo le fondamenta della Repubblica parlamentare, che inaspriscono la parte peggiore di ogni sfruttato: la disperazione declinata sul piano della paura che un altro sfruttato venga a strapparti dalla bocca le poche briciole che i ricchi ti hanno lasciato. Per ricostruire davvero la sinistra di alternativa bisogna dedicarsi solo ad essa senza guardare al “meno peggio”: si può marciare insieme al PD nelle manifestazioni unitarie contro nazionalismi, ferocia xenofoba, omofobia, pregiudizi e razzismi di ogni tipo, in difesa della Costituzione e della memoria storica per una attualità antifascista moderna; ma non si può confondere la pretesa di recupero delle coscienze alla critica sociale con il “manifesto di Calenda” che vuole stabilizzare l’economia liberista europea evitando i litigi tra le classi dominanti che proteggono il potere economico. Questo non è un discorso estremista, miope o inconsapevole dei rischi che corriamo. Se lo è, somiglia molto alla capacità che nel 1921 i comunisti ebbero di dire “no” all’abbandono di uno schema internazionale di diffusione delle idee sociali per dedicarsi a quello che, pure, era ancora un riformismo degno di qualche nota. Occorre accelerare i tempi, fare presto e riunire le forze che vogliano creare attorno al programma del Partito della Sinistra Europa una lista che tenti l’impossibile per farsi conoscere in queste poche settimane che ci separano dal voto e che vedranno i cittadini massacrati da una propaganda incessante delle destre di governo sulle tante minacce dell’Europa economica dei trattati e della BCE e da una propaganda zingarettiana e calendiana volta a riunire in una lista unitaria le “forze responsabili” per battere i sovranisti, provando a marginalizzare ancora una volta la sinistra di alternativa. Questo regalo non possiamo concederlo: tanto alle destre storiche quanto a quelle che si mostrano come “sinistra” e che sono sempre e soltanto la versione edulcorata di un liberismo che vuole persistere nella difesa dei suoi privilegi di classe.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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