Io ho conosciuto Radames. Era alla fine del secolo scorso, a Granarolo, e credo che allora avesse un’ottantina d’anni. Non so se da giovane fosse prestante, se avesse il fisico di un condottiero, ma – almeno quando l’ho conosciuto io – non valeva il detto latino nomen omen. Radames era mingherlino ed era uno di quelli che anche al bar raramente alzava la voce.
Perché uno che aveva sempre fatto il contadino a Bagnarola si chiamava così?
Il motivo principale era che quel nome era stato per la sua famiglia, nei primi anni del Novecento, un segno di ribellione. Radames è un nome adesposta – anche se i genitori del piccolo non avrebbero mai usato questa parola – che in sostanza significa che sul calendario non troverete un san Radames. Anche perché quel nome non era neppure egiziano: lo aveva inventato l’egittologo francese Auguste Mariette, che scrisse il soggetto del dramma da cui Antonio Ghislanzoni ricavò il libretto che fu la base per l’Aida del Maestro Verdi. Evidentemente la famiglia del piccolo Radames volle scegliere un “nome estraneo al senso cristiano”, affinché – secondo quanto prescritto dal canone 855 del Codice canonico il bambino non fosse neppure “battezzabile”. A dire la verità i preti non erano così rigidi nell’interpretare questa regola: si poteva sempre infilare un Giuseppe durante la funzione per “santificare” quel Radames e poi la festa di Ognissanti serviva anche a superare l’inconveniente di non avere un giorno in cui festeggiare l’onomastico. Non so poi se Radames sia stato effettivamente battezzato o no: magari il parroco di Bagnarola era un appassionato delle opere di Verdi e trovava quel nome di “senso cristiano”.
E’ molto probabile che i genitori di Radames non sapessero né leggere né scrivere: non serviva per fare i contadini a Bagnarola. Eppure quei due giovani – perché allora i figli si facevano da ragazzi – quando furono al momento di scegliere un nome per il loro bambino pensarono, al di là di ogni altra motivazione ideologica, alle opere di Verdi. I genitori di Radames ovviamente non avevano visto l’opera a teatro, forse avevano ascoltato le note della Marcia trionfale da un organetto a rullo arrivato fortunosamente fino a Bagnarola, durante il giro di un cantastorie per la bassa bolognese, ma certamente qualcuno aveva loro raccontato, durante una sera d’inverno, in una delle stalle in cui erano soliti ritrovarsi nelle nostre campagne, la storia infelice della principessa etiope diventata schiava che si innamora del nemico che ha sconfitto il suo popolo e ha fatto prigioniero suo padre. E chissà cosa avrà provato la madre di Radames a sentire la violenza di Amneris contro Aida, quando, scoperto che amano entrambe lo stesso uomo, le sbatte in faccia di essere “figlia de’ faraoni” e la costringe a guardare il trionfo sul suo popolo sconfitto. Forse anche a lei un giorno una delle padrone aveva sbattuto in faccia quella differenza di classe, di ceto.
Grazie a quel povero teatro di stalla, a quel racconto dove forse le storie si mescolavano, quei due giovani contadini avevano imparato a conoscere Verdi – anche se non non avevano mai sentito una sua nota – ma soprattutto erano diventati consapevoli della loro dignità e di quello che valevano loro due e il loro lavoro. E hanno provato a rendere evidente tutto questo nel nome di quel loro bambino, che, anche se sapevano che sarebbe stato un contadino per tutta la vita, si sarebbe sempre chiamato Radames.

se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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