di Lionel S. Delgado

Ci ritroviamo nella stessa situazione dell’anno scorso. Ma tutto è cambiato. Siamo efficaci negli ambienti maschili nel momento di pensare, agire e organizzarci per la costruzione di percorsi di genere? Ci stiamo muovendo, sì, ma a che ritmi? Cosa ci blocca? Una riflessione dalla Spagna

Durante l’avvicinamento all’8M dello scorso anno, ricordo che passammo ore e ore discutendo sul ruolo degli uomini nello sciopero femminista. Discutevamo se fossimo convocati a scioperare o se invece dovessimo lavorare, se pronunciarci o rimanere in silenzio, insomma se fare qualcosa oppure no. Alla fine il ruolo degli uomini risultò relativamente chiaro: rinunciare al protagonismo ma collaborare, dando supporto alla logistica e coprendo le nostre compagne nel lavoro di cura. Soprattutto, bisognava iniziare ad agire nel nostro intorno personale per sensibilizzare gli uomini che ci circondavano. E poi pensare, riflettere, parlare.

In Spagna lo sciopero fu un successo clamoroso. Cortei in 120 città, centinaia di migliaia di persone per strada. Tra queste, migliaia e migliaia di uomini che simpatizzavano, empatizzavano e solidarizzavano con la lotta femminista. Però…

Tre mesi più tardi si convocava a Madrid un concentramento di uomini contro il machismo proprio e altrui. Ancora con il sapore in bocca dell’8M questo concentramento radunava appena cinquanta persone.

Sembrerebbe che noi uomini, pur avendo chiaro che il femminismo possiede legittimità come lotta, incontriamo molti problemi nel momento di metterci a lavorare attivamente nel campo della maschilità. D’altro canto questo argomento sembrerebbe essere di moda: il riemergere di una destra politica strettamente legata a codici e pratiche maschili, insieme a un processo di “reazione” di un certo machismo militante in rete, comincia a richiamare l’attenzione sull’importanza di lottare contro il risentimento e il malessere del maschio che viene da una crisi di identità e dei valori legati ai tradizionali modelli di genere.

Da un anno a questa parte la destra ed il machismo hanno effettuato numerose mosse offensive. Tuttavia, nel campo della maschilità critica continuiamo a rimanere sulla difensiva. Siamo efficaci nell’ambiente maschile nel momento di pensare, agire, organizzarci? Ci stiamo muovendo, sì, ma a che ritmo? Cosa ci blocca?

LA COLPA E L’INDIVIDUO

Credo che, sebbene la messa in luce grazie al #MeToo delle violenze che esercitiamo quotidianamente sia stata fondamentale per porre sul tavolo il tema del machismo (e per buttare un secchio di acqua fredda su chi di noi pensava che il machismo non ci riguardasse), stiamo cadendo in posizioni di immobilismo meramente centrate sull’analisi individuale.

Ho vissuto già molte scene (e presenziato altrettante) di dibattiti interminabili tra uomini in cui cominciamo mettendo in discussione comportamenti, ma finiamo con un’autoflagellazione interminabile. È utile stare tutto il tempo a colpevolizzarci? Quanta energia dedichiamo alla messa in luce delle contraddizioni personali e quanta al lavoro per distruggere le condizioni che riproducono tali contraddizioni?

La teorica Raewyn Connell, il cui lavoro è imprescindibile per chiunque si interessi alla maschilità, definisce il genere come un sistema sociale che è necessario immaginare senza cadere nel categorialismo strutturale (siamo il risultato di strutture sociali) o biologista (vincolare l’essenza al corpo), però nemmeno senza cadere nel puro volontarismo (possiamo cambiare per pura forza di volontà) o nel culturalismo pluralista (tutto è riducibile a discorsi o simboli sui quali è sufficiente intervenire). Il genere è un agire del “dentro” verso il “fuori” (esteriorizziamo l’interiore) e, a sua volta, una struttura del “fuori” verso il “dentro” (interiorizziamo l’esterno): strutture sociali e materiali incarnate e, allo stesso tempo, corpi che vivono e agiscono riproducendo/modificando/rompendo tali strutture. Non solo volontà. Non solo struttura.

Tuttavia, i dibattiti sul ruolo degli uomini finiscono di solito incagliati in posizioni volontaristiche che, inoltre, si mischiano con un accentuato moralismo: o siamo innocenti o colpevoli, o machisti o non machisti (una versione concreta dell’eterno dibattito tra bene e male). Due categorie ristagnanti, due scatoloni senza distinzione di grado: se siamo machisti, non ci sono sfumature. Lo siamo o non lo siamo. Un binarismo del quale non si sbarazza nemmeno un movimento come quello femminista, che in principio metterebbe in discussione le dicotomie di genere per essere oppressive o semplicistiche.

E come se non fosse abbastanza, questo dibattito può risultare scivoloso in partenza: se viviamo in una società machista, allora tutti siamo machisti, e quindi liberarsi da tale etichetta è impossibile. In questo modo l’uomo deve scontrarsi con l’idea che è un machista seriale e dovrà, pertanto, cercare (nevroticamente) di passare allo status di “non machista” dimostrando la sua innocenza. Ma nemmeno troppo, per non sembrare che pretendiamo qualcosa in cambio per la nostra buona volontà.

Il lavoro personale e l’impegno individuale sono importanti, certo, ma se cadiamo nel moralismo semplicistico (colpevole/innocente), questo tipo di discorsi si può convertire in qualcosa che ci blocca. Nel migliore dei casi l’uomo che attraversa questo processo avrà una curiosità e volontà di ferro per seguire il sentiero della decostruzione, un sentiero tortuoso che non sappiamo bene dove porti. Nel peggiore, finirà sviluppando un risentimento e alimentando la reazione neo-machista che si vittimizza e “sputa” contro il femminismo. Nella maggioranza dei casi avremo uomini che si allontanano da un discorso che li ferisce e svilupperanno quel disfattismo del tipo “il femminismo va bene, ma non così”.

NON C’È “SOMMA ZERO”

Cosa ci resta da fare? Per ora parlare. Parlare tra di noi e con le compagne. Pensare. Leggere e riflettere. Sviluppare strumenti critici per evitare di rimanere incantati dal canto di sirena del machismo: naturalmente anche come uomini soffriamo e viviamo svantaggi che il femminismo non contempla. Però, da un lato, non appartiene al lavoro del femminismo pensare a noi uomini. Dall’altro, non si tratta di “sommare a zero”: il fatto che gli uomini abbiano problemi (moriamo di più in infortuni nel lavoro, in scontri per strada, in assassinii; viviamo per strada, ci suicidiamo, soffriamo in silenzio…) non svaluta la lotta femminista ma, al contrario, le dà una nuova prospettiva.

Credo che la messa in luce delle posizioni maschili impegnate nel femminismo non faccia altro che arricchire il dibattito. Ma solo se lo affrontiamo con sincerità e serietà.

«Cadrà», dicono le femministe argentine. Però la disuguaglianza cade perché si butta giù, non per arte o magia. Gli uomini devono collaborare con quest’abbattimento. E il nostro lavoro consiste, credo, in tre elementi chiave:

– Primo, discutere sul malessere maschile: smettere di negare che esista un malessere tra gli uomini e cominciare ad accettarlo per poter cambiarlo. Imparare quali problemi ci toccano e capire come questi sono provocati dal regime di genere è qualcosa di fondamentale per qualsiasi cambiamento. Condividere contenuti, criticare visioni prevenute, raccogliere dati sono buone forme per iniziare;

– Secondo, mettere in luce pratiche alternative: frammentare l’egemonia delle forme violente e possessive dell’essere uomo. La normalizzazione di altre maniere di relazionarci, di gestire la nostra vita emotiva, sessuale e sociale permetterà di diversificare e ampliare l’inclusività. Come? Riunendoci, formando gruppi di uomini (i cosiddetti laboratori di maschilità), dove prenderci cura di noi e coccolarci a partire dall’autocritica ed il supporto costruttivo, raccontare le nostre esperienze e riflettere collettivamente sui modi di contribuire alla trasformazione sociale.

– Terzo, avere chiaro il nemico: come dice l’incredibile Rita Segato, il problema della violenza contro le donne è politico, non morale. È importante il lavoro personale e l’impegno etico, ma cadere in moralizzazioni semplicistiche (innocente/colpevole) non risolve niente. È molto più fruttuoso capire come operano le strutture sociali per produrre e riprodurre certe violenze e come si incorporano i regimi di genere nei diversi corpi.

Tutti siamo consapevoli delle complicazioni che comporta l’esperienza maschile. Non ci sono buoni, né cattivi. Lungi da stereotipi secondo i quali gli uomini sarebbero semplici, la realtà è che siamo prismi complessi, come qualsiasi altra persona. Le contraddizioni, i doppi standard, gli autoinganni, l’insicurezza e la paura formano una parte intima di noi. Dobbiamo porre sul tavolo questa forma di vivere complessa e contraddittoria per capire i meccanismi di potere e agire con efficacia. Non sappiamo niente di noi. Ed è il momento di farla finita con questo vuoto.

Non possiamo trascorrere un altro anno “intasati”. Il riemergere del neo-conservatorismo, la situazione di radicalizzazione politica, la diffusione di idee che mettono in discussione i pilastri più basilari dell’uguaglianza di genere e l’organizzazione del risentimento maschile ci obbligano a fare una mossa. E se non disponiamo degli strumenti adeguati, questa sembra una lotta che non potremo vincere.

Articolo tratto da El Salto

Traduzione a cura di Aniello Lampo per Dinamopress

Illustrazione di copertina di Mambo Lucahttps://www.instagram.com/mambo_lucahttps://vimeo.com/mamboluca

da https://www.dinamopress.it/news/la-colpa-delluomo-moralismo-limmobilismo-maschile-nell8m/

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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