Ora che anche in Italia sta divenendo chiaro cosa comporti il reddito di cittadinanza reale, è ancora più necessario riflettere criticamente, in una prospettiva marxista, su questa parola d’ordine.        Come di consueto le soluzioni idealistiche piccolo-borghesi – ispirate al vecchio socialismo utopistico, non a caso tanto criticato da Marx ed Engels – si rivelano peggiori del male che pretenderebbero di curare. In primo luogo per la loro natura ideologica, sottoprodotto dell’ideologia dominante, che ha una funzione mistificante atta a occultare la verità che è sempre rivoluzionaria. Nel caso specifico lo pseudo-concetto del reddito è proprio di quell’economia volgare funzionale a occultare i concetti reali evidenziati dall’analisi marxista e con essi lo sfruttamento che è alla base del modo capitalistico di produzione. L’economia volgare cerca di occultare che la fonte del valore è il lavoro vivo e che il profitto del capitalista e la rendita sono il prodotto unicamente dello sfruttamento della forza-lavoro. Secondo tale rappresentazione mistificante il capitale, la terra e il lavoro coopererebbero nella produzione del nuovo valore per cui il lavoro andrebbe retribuito con un reddito proporzionale al suo apporto al valore prodotto. In tal modo si occulta la forma reale della retribuzione della forza-lavoro, ovvero il salario per sua natura concetto sociale, in quanto comprende quanto la classe borghese dominante nel suo insieme paga come equivalente del valore della forza-lavoro che acquista, che corrisponde al suo valore, ovvero al tempo di lavoro mediamente necessario, in una determinata epoca storica con un certo sviluppo delle forze produttive, per la sua riproduzione. Dunque il salario corrisponde a quanto prodotto dalla forza-lavoro nel suo complesso nella prima parte della giornata lavorativa, in cui con il lavoro necessario produce l’equivalente di valore di quanto percepisce in quanto classe come salario, equivalente al valore del lavoro necessario all’intera classe degli sfruttati per riprodursi e continuare a farsi sfruttare in modo continuativo dal padronato. A questa prima distorsione ideologica, si accompagna la distorsione ideologica prodotta dagli attuali epigoni del socialismo utopista, ovvero i post-operaisti che ritengono, in piena consonanza con l’ideologia dominante, che lo sfruttamento del lavoro vivo non sia più necessario alla produzione del nuovo valore, in quanto quest’ultimo sarebbe ormai prodotto dal lavoro morto delle macchine. In queste ultime e, più in generale nei portati dello sviluppo tecnologico, fino ai robot e all’intelligenza artificiale, sarebbe incorporato il “general intellect”, prodotto dal semplice vivere creativo di ogni uomo. Dunque, ogni individuo, contribuendo alla produzione del general intellect incorporato nelle macchine, dovrebbe ottenere in cambio sotto forma di reddito la quota del nuovo valore che avrebbe, anche inconsapevolmente, contribuito a produrre. Inoltre, prigionieri dell’ideologia democratica piccolo borghese, che tende a separare e contrapporre il citoyen dal bourgeois, il primo rivolto al bene comune pubblico, il secondo unicamente interessato al proprio tornaconto privato; sarebbe dunque evidente che è il primo a dover essere premiato con la retribuzione di un reddito piuttosto che il secondo. Da qui l’idea di garantire a ogni cittadino lo stesso reddito. Secondo una concezione di eguaglianza del tutto astratta, propria dell’ideologia borghese, secondo cui un miliardario single avrebbe diritto allo stesso reddito di un povero padre di una famiglia numerosa. Inoltre, legare l’erogazione del reddito alla cittadinanza significa essere ancora una volta oggettivamente complici dell’ideologia della classe dominante che vuole ridurre il numero crescente di lavoratori emigrati privi della cittadinanza al livello di nuovi schiavi. In tal modo il proletariato moderno, potenzialmente soggetto rivoluzionario, in quanto non avrebbe altro da perdere che la propria forza-lavoro, sarebbe ridotto alla antica plebe che, avendo sotto di sé in condizione peggiore gli schiavi, aveva da perdere i privilegi legati al suo diritto di cittadinanza e così non era nemmeno potenzialmente il soggetto rivoluzionario necessario all’emancipazione dell’intera società. Inoltre, gli attuali epigoni del socialismo utopista – perfettamente rappresentati dai grillini, che hanno fatto proprie tutte le illusorie parole d’ordine della piccola borghesia sedicente di sinistra e, perciò, hanno fatto il pieno dei voti in questo settore fino a poco tempo fa ideologicamente dominante – ancora una volta in perfetto accordo con l’ideologia dominante, si illudono (e illudono) che il modo di produzione capitalistico sia ormai superato. Per cui lo sfruttamento sarebbe solo un inganno, dal momento che i lavoratori non sono più produttori, in quanto compiutamente sostituiti dalle macchine. In tal modo, ci sarebbe soltanto da condurre lo scontro in nome del bene comune, prodotto dal general intellect, del 99% che sta in basso contro l’1% che sta in alto. Perciò le vecchie distinzione fra sfruttati e sfruttatori e fra destra e sinistra sarebbero superate. Da qui l’ideale piccolo borghese di un populismo di sinistra, volto a fare gli interessi di tutti i cittadini, che si definiscono e si identificano proprio nel loro contrapporsi ai non cittadini immigrati, che si illuderebbero ancora di essere produttori con il loro lavoro. Dovrebbe, dunque, essere lo Stato – rappresentato dai piccoli borghesi sedicenti di sinistra allo stesso modo dell’ideologia dominante, ossia come un apparato superiore e arbitro dei conflitti sociali, in sé neutro e perciò da occupare vincendo le elezioni con l’uomo comune – a redistribuire il nuovo valore prodotto fra i cittadini. In tal modo si occulta ancora una volta la determinazione essenziale dello Stato, come forma del dominio di un blocco sociale sui ceti subalterni. Basterebbe, dunque, portare al governo dello Stato il nuovo partito dell’uomo, o meglio del cittadino comune, per trasformare radicalmente l’esistente redistribuendo il mal tolto da chi sta in alto, mediante il reddito di cittadinanza, al 99% che sta in basso. Evidentemente non basta volere che il modo di produzione capitalistico non esista più perché tale pia illusione si avveri. Al contrario, dando a credere che nei fatti non esista più, si genera l’illusione che sia donchisciottesco battersi contro questi mulini a vento. In tal modo, venendo meno ogni forma di anticapitalismo progressivo, si lascia spazio al dominio incondizionato del capitalismo nella sua forma più radicale, neoliberista, lasciando come unica opposizione un anticapitalismo regressivo puramente ideologico. Il sogno distopico della piccola borghesia è di essere considerata a tutti gli effetti parte del blocco sociale dominante per poter, così, prendere parte alla spartizione del plusvalore – prodotto dal lavoro non pagato della forza-lavoro – con l’alta borghesia e i rentier. Da qui la pretesa, tipica del borghese, di poter godere di un reddito senza lavorare e, quindi, necessariamente, dal momento che qualcuno dovrà pure lavorare per creare nuovo valore, vivere alle spalle di chi lavora. Ancora più assurda è la pretesa della piccola borghesia di estrema sinistra di vedersi attribuita dallo Stato un reddito garantito per il lavoro politico che svolge. Dal momento che si tratta evidentemente di uno Stato imperialista, parte della Nato e impegnato con truppe nell’occupazione di diversi paesi del terzo mondo, per ottenere tale reddito dovrebbero svolgere un lavoro politico funzionale a tale forma classista di dominio. Certo, dal punto di vista ideologico, gli ideologi di un tale reddito svolgono un ruolo oggettivamente importante per il mantenimento del (dis-)ordine borghese, sostenendo che i lavoratori salariati nel loro complesso sono improduttivi, che sono complici del sistema, in quanto continuano inutilmente a farsi sfruttare, che i sindacati e lo sciopero non hanno più senso, dal momento che produttive sarebbero solo le macchine e il general intellect, al cui sviluppo contribuirebbero tutte le forme di vita creativa e, dunque, antitetica alla condizione generale dei salariati. Inoltre mettono costantemente sotto attacco il salario indiretto e tendenzialmente lo stesso salario differito, schierandosi per la piena disintegrazione di quello che definiscono il vecchio Stato sociale (che sarebbe, in realtà, lo Stato asociale dell’imperialismo), da sostituire con il reddito di cittadinanza. Dunque, i lavoratori salariati dovrebbero rinunciare a due componenti del loro salario indispensabili per la loro mera riproduzione come classe. Inoltre, per quanto in forma distorta all’interno del sistema capitalistico le strutture pubbliche, i servizi sociali tendenzialmente gratuiti sono un residuo della solidarietà fra le classi subalterne e della necessità di una tassazione progressiva delle classi dominanti. Al contrario eliminare tutti i servizi sociali e tutta la sfera pubblica per finanziare un reddito da garantire a ogni cittadino, non fa altro che supportare l’ideologia dominante ultra-individualista, che ovviamente favorisce solo le classi dominanti. Del resto, sino a che c’era il socialismo reale, in diversi paesi a capitalismo avanzato sono state sperimentate forme di reddito garantito, naturalmente non dato a tutti incondizionatamente – secondo il sogno distopico della piccola borghesia sedicente di sinistra – ma a chi era privo di lavoro. Tali misure, oltre a essere necessarie alla rivoluzione passiva indispensabile per esorcizzare il fantasma del comunismo, ancora in grado di turbare i sonni della classe dominante, erano essenziali per tenere sempre al livello più basso il prezzo della forza-lavoro. In effetti, come è sempre avvenuto nella realtà, ovvero nella storia – sin dalle esperienze delle leggi sui poveri nel diciottesimo secolo in Inghilterra – i sussidi dati ai disoccupati erano al di sotto del minimo indispensabile alla propria riproduzione come classe lavoratrice, per cui era sufficiente fissare il livello dei salari appena sopra tale livello per convincere la stragrande maggioranza dei lavoratori a svendere la propria forza-lavoro al minimo del suo valore. Inoltre tale politica era naturalmente funzionale al divide et impera necessario alla ristretta classe dominante per mantenere i suoi enormi privilegi a spese dei subalterni. Infatti, con tali forme di reddito ai disoccupati si crea una scissione sempre più ampia fra questi ultimi e i lavoratori. I salariati finiscono per considerare, grazie all’egemonia dell’ideologia dominante, i percettori del reddito come i principali parassiti sociali, responsabili della condizione miserabile dei loro salari. Al contrario la piccola borghesia sedicente di sinistra accusava i lavoratori di essere, con la loro ostinazione a vendere la forza-lavoro, i veri responsabili della sopravvivenza dell’ingiusto e irrazionale modo di produzione capitalistico. D’altra parte, per poter continuare a percepire un reddito senza lavorare, i redditisti erano costretti a vivere in un stadio di povertà, a meno di lavorare in nero, e a spendere un numero crescente di energie per sfuggire alle forme di controllo sempre più pervasivo della burocrazia dello Stato capitalista. Alla fine i disagi prodotti dal dover sottostare a tutte le imposizioni della burocrazia per continuare a godere di un reddito senza lavorare erano pressoché equivalenti a quelli di chi viveva vendendo la propria forza-lavoro. Con la differenza sostanziale che questi ultimi lavorando insieme riuscivano a sviluppare una certa coscienza di classe che li portava a solidarizzare e a lottare insieme contro il comune nemico, mentre i redditisti non avevano nessuna possibilità di condurre una lotta incisiva contro il capitale, essendo tendenzialmente isolati e non potendo nemmeno scioperare. Senza contare che tali politiche di rivoluzione passiva non potevano che venir meno, da una parte con la sconfitta storica del socialismo reale – a cui i redditisti hanno generalmente contribuito – e con le crescenti crisi di sovrapproduzione che riducono i margini di profitto indispensabili alle politiche redistributive.

https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/il-reddito-di-cittadinanza-reale

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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