Puntualissima, eccola qui. La polemica tutta internettiana sulla mancanza della “falce e martello” nel nuovo simbolo delle forze della sinistra che si alleano per le europee, è arrivata, precipitata nelle pagine di Facebook e allargatasi a macchia d’olio assegnandosi una importanza smisurata tramite le pulsioni identitarie di compagne e di compagni che riducono il comunismo soltanto ad una espressione simbolica. Siccome questa polemica mi ha veramente stancato, ho provato a capire le ragioni per cui io, che sono sempre stato un difensore dell’identità politica e che, tutt’ora, ritengo di esserlo a pieno titolo (il titolo me lo attribuisco autonomamente, quindi concedo una percentuale alta di fallacia e anche di presunzione in ciò), non mi sento seviziato nel mio essere comunista dalla non presenza nel simbolo de “la Sinistra” degli storici emblemi del lavoro incrociati e sormontati dalla stella del socialismo (o d’Italia, per i più patriottici…). La prima ragione risiede nel fatto che la mia visione della società, la sua interpretazione attraverso le categorie di studio e analisi marxiane non muta perché ho ancora un Partito che, ovviamente a mio modo di intendere, le interpreta sufficientemente bene e quindi, esistendo Rifondazione Comunista, prima di tutto la mia casa politica esiste e rimane tale. Dunque, lo spazio dove far crescere una cultura anticapitalista c’è, eppure non può essere singolareggiato, così prosopopaicamente definito come l’unico luogo della politica italiana dove può ricrearsi una critica dell’economia politica moderna, quindi una rinascita di una coscienza critica che riparta dal conflitto tra capitale e lavoro. In questi decenni, già a partire dai prodromi del berlusconismo, passati attraverso la stagione craxiana di un pentapartito in decomposizione, il mondo del progressismo italiano ha conosciuto un deterioramento costante di una cultura che proteggeva enormi valori su cui si era fondata la Repubblica pur, governativamente parlando, fosse gestita da tutt’altro schema di alleanze e prospettive economico-sociali. Il “paese nel paese”, quella sinistra comunista che aveva tessuto pazientemente e con un lavoro capillare una sintonia costante e ubiqua grazie alla diffusione su tutto il territorio nazionale di centri sociali, culturali, sostenendo parimenti il sindacato e creando vere e proprie “fabbriche di pensiero” attraverso ad esempio l’ARCI, mantenendo viva la coscienza antifascista nella stragrande maggioranza della popolazione, quella sinistra ha visto chiudersi il suo ciclo con il 1989, con la fine di un mondo bipolare, con il voltare pagina rispetto ai grandi blocchi di potere, di economia e di idee (sarebbe meglio definirle “ideologie”). Ma tuttavia non venne meno, e nemmeno oggi viene meno, la imprescindibile presenza di una organizzazione politica che guardasse criticamente, senza se e senza ma, al capitalismo dominante su scala planetaria che aveva imposto un “pensiero unico” da contrapporre alla visione lucida, ma così lontana, di un comunismo non legato a strutture statali e burocrazie oligarchiche, bensì al modello di socialismo libertario bene espresso da Rosa Luxemburg, da quelle che venivano impropriamente chiamate “correnti eretiche” del marxismo, o quanto meno giudicate tali da coloro che poi si sono rivelati i peggiori socialdemocratici europei (gli ex comunisti italiani…). Così nacque, visse pericolosamente e sopravvive oggi Rifondazione Comunista che della sua esistenza deve fare tesoro proprio dedicandosi alla ricomposizione di un “ambito sociale e politico”, quindi di qualcosa di più di una semplice lista elettorale per le europee del 26 maggio. Ciò non significa affatto sminuire la vitale importanza che ha questo passaggio primaverile per il rinnovo del Parlamento europeo: significa invece valorizzare un primo impatto dirimente, capace di determinare ancora una vola vita o morte di quanto stiamo creando con la pazienza di chi si rimette all’opera – per citare Gramsci – ricominciando dal principio. Serenamente. Sapendo che non è permesso ai comunisti ritenere, non si sa bene per quale ragione scientifica, che la società capitalista migliorerà se il disimpegno dalla politica quotidiana diventa “di massa”, se la rassegnazione assume proporzioni ciclopiche. Tutto peggiorerà, seppure lievemente, ma sarà così. Perché una voce critica, per quanto minuscola, residuale e inascoltata sia dai maggiori mezzi di informazione del Paese, è pur sempre una voce e deve poter esistere per resistere e quindi insistere nella riconsiderazione di sé stessa, dopo tante autocritiche, per mettere in campo un metodo comunicativo diverso da quello del movimento comunista non solo dell’800 ma anche soltanto della fine del “secolo breve”. Per questa prima ragione, di esistenza, resistenza ed insistenza di Rifondazione Comunista a partecipare a qualunque tentativo di riproposta dell’opzione di critica senza appello al capitalismo e al liberismo, non mi sento defraudato della mia identità senza la “falce e martello” nel simbolo de “la Sinistra”. Mi sento invece capace di vederla dentro questo nuovo simbolo perché i valori che difendiamo e che portiamo avanti da sempre noi tentiamo di traghettarli anche in questa esperienza. La seconda ragione per cui ritengo non solo politicamente infantile ma veramente patetica la rivendicazione della “falce e martello” ovunque noi si vada nel fare alleanze o stringendo accordi, è legata più distintamente alla mediocrità di questa fase prettamente emotiva e per niente programmatico-politica dell’identità comunista. I comunisti come Marx, Engels, ma ancor prima Babeuf e gli “eguali”, non avrebbero mai immaginato che i simboli che avrebbero caratterizzato con grande forza e impatto visivo il movimento dei lavoratori e degli sfruttati tutti sarebbero stati una falce e un martello. Il ricorso ai simboli del lavoro lo troviamo per la prima volta nell’emblema dello Stato Sovietico all’inizio del 1918. L’anno seguente “falce e martello” sarebbero stati adottati come simbolo dal Partito Socialista Italiano. Fino ad allora i comunisti per oltre settanta anni hanno battagliato in tutto il mondo, con episodi di enorme importanza e truculenza come la Comune di Parigi, l’insurrezione spartachista di Berlino del 1919, senza avere la “falce e martello” come simbolo cui fare riferimento. Ciò che voglio dire, molto banalmente, è che siamo noi, con le nostre idee e la nostra avversione ad un sistema che crea milioni e milioni di sfruttati ad essere il simbolo del movimento comunista e di un partito comunista. Il simbolo siamo noi stessi. Niente altro. Ritengo importante, storicamente, politicamente ed anche personalmente, rimanere ancorato alla “falce e martello” che resterà il “mio” simbolo, come per molti di voi lo è. Ma non dirò mai che i comunisti tradiscono le loro origini, la loro essenza primordiale, il loro essere oggi anticapitalisti se si mostrano esclusivamente e sempre con la “falce e martello”. Questa presunzione è figlia di una ignoranza tutta protesa ad un dogmatismo che ha le sue radici davvero in un pericoloso feticismo che è vuoto di ogni proposta, per cui si è comunisti soltanto se ci si proclama tali, se si mostra sul petto la “falce e martello”. Questo è uno dei modi (ahimè ne esistono molti) per caricaturizzare e ridicolizzare la nostra identità sociale e politica, per fare dei comunisti delle figure di fanatici dediti solo alla rappresentazione di sé stessi, possibili, visibili e distinguibili solo se con dietro lo storico “brand” (oggi si usa dire così) del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici. Riprenderci la nostra identità e mantenerla, aggiornandola agli eventi proprio come Marx ci ha insegnato, dentro il solco della continua opera critica nei confronti di un capitalismo che muta senza sosta, è un compito che dobbiamo assolvere avendo cura dei nostri simboli e del nostro nome ma che, soprattutto, possiamo concretizzare fattivamente sapendo che la migliore delle nostre bandiere è la realizzazione di una nuova visione dell’alternativa di società per la gente più comune. Quando tanta gente povera, arrabbiata, lontana dalla politica e dal mondo illustrato dalla Costituzione parlandomi mi dirà: “Voi siete diversi da tutti gli altri”, quando torneranno a dirmi ciò, allora io saprò che la mia identità di comunista è riconosciuta in quanto tale. E non sarà solo l’esibizione della “falce e martello” ad operare questo “miracolo”, ma la tenacia con cui sapremo egemonizzare il campo progressista tutto in costruzione oggi. Meriterebbe davvero una catarsi palingenetica questa sinistra atomizzata, priva di ancoraggi popolari, nel mondo del lavoro, dello sfruttamento più becero, laddove i dannati della Terra sono ai margini di una società sempre più ricca di superficialità frutto di un analfabetismo di ritorno sul piano civico, morale e sociale che mette davvero i brividi se si pensa anche soltanto all’eredità lasciata dal 1989… In assenza di un risciacquo di panni in Arno, i comunisti devono impegnarsi per evitare che a prevalere, in quell’alveo di sinistra politica che rimane, non sia la vocazione gestionale del potere di alcune forze della sinistra stessa, ma quella dell’imposizione di nuovi diritti per chi oggi non ne ha, trasformando quindi le condizioni di sopravvivenza in vita degna di essere vissuta e aprendo così la strada ad una nuova occasione per l’”assalto al cielo”. Dobbiamo ancora “essere” comunisti e non soltanto “sembrarlo”. Come si diceva e come torniamo a dire oggi: al lavoro e alla lotta, compagne e compagni. Delle comuniste e dei comunisti i lavoratori, i precari e i disoccupati moderni ne hanno un gran bisogno. Anche se ancora non lo sanno, anche se se ne sono dimenticati…

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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