23 anni fa, nel corso della campagna elettorale per le elezioni politiche, ci ponevamo come comunisti e come membri del Partito della Rifondazione Comunista una serie di domande che, rileggendo alcuni opuscoli del tempo che fu, sono strettamente attuali.

Perché, confessiamoci anche questa amara verità, è vero che i cambiamenti sociali sono stati enormi ma è altrettanto vero che sempre all’interno del sistema capitalistico ci andiamo a muovere e, pertanto, di riflesso le problematiche che dobbiamo affrontare hanno sempre quel tratto se si tratta di lavoro, quell’altro tratto se si tratta di scuola, quell’ennesimo altro tratto se si tratta di parlare di pace, esteri e magari proprio di Europa.

Cambiano gli inquilini delle varie case che ci stanno intorno ma il condominio è sempre lo stesso: iniziativa privata su tutto in un mondo globalizzato attraverso i disvalori dell’accumulazione profittuale, dello sfruttamento intensivo della natura, dell’appropriazione di ogni elemento materiale che possa produrre ricchezza non sociale, non diffusa ma solo per chi detiene i “mezzi di produzione”, ne è il padrone ma viene tinteggiato amorevolmente da giornali e televisioni al suo servizio come colui che “fa impresa”, per l’appunto “l’imprenditore”.

Tutto appare più bello, decente, accettabile e persino condivisibile da una certa “sinistra” che da lungo tempo ormai si fa chiamare tale e che ha sovvertito i princìpi fondamentali dell’essere sinistra: la completa dedizione all’uguaglianza sociale, civile e la lotta contro un capitalismo che, secondo i riformisti anche moderni, va “umanizzato” (contraddizione in termini, ma vaglielo a spiegare ai cosiddetti “pragmatisti” dei giorni nostri…) mentre secondo presunti “rivoluzionari” senza rivoluzione appresso (dovremmo esserci anche noi, da qualche parte, in questa categoria bislacca) va giustamente “capovolto”, rovesciato a 180 gradi.

23 anni fa ci domandavamo come “battere le destre, in primo luogo: perché propongono soluzioni autoritarie e antipopolari sia sul piano sociale che su piano istituzionale“. E’ forse una frase fuori luogo oggi? Non mi sembra proprio. Purtroppo…

23 anni fa ci sollecitavamo vicendevolmente a “lavorare per l’alternativa ricominciando da sinistra.“. Anche questa frase è pienamente contestualizzabile in un oggi per niente inopinato, ma drammaticamente prevedibile di giorno in giorno, visti i passi da gigante che fa il moderno neofascismo chiamato bellamente “sovranismo”.

23 anni fa c’era la desistenza e quindi Rifondazione Comunista poteva dirsi unitaria e distinta allo stesso tempo dal progetto de “l’Ulivo”. Oggi invece non c’è più alcun centrosinistra contrapposto ad un centrodestra propriamente detto perché entrambi sono ridotti ad un regime da geometria così variabile da non permettere di riconoscere loro confini certi, identità precise ma di agganciarsi alla tiepidissima speranza che l’arcaico trasformatore della Repubblica in capo ancora a Forza Italia rimetta insieme i cocci di forze che, presentatesi unite alle ultime politiche, si sono divise tra governo e opposizione subito dopo, oppure che l’ultimo arrivato dalla carica di Presidente della Regione Lazio riesca a farsi dipingere il contorno di un rinnovamento del PD tale da apparire “di sinistra” pur rivendicando il voto sul referendum “Renzi – Boschi” sulla controriforma costituzionale oppure le grandi opere come il TAV.

Dal terreno sociale a quello della politique politicienne, come è evidente i mutamenti hanno condotto ad una frammentazione delle categorie popolari, dei settori del lavoro, rendendo quasi innocuo un sindacato che ora si affida a Maurizio Landini, al suo “bucare il video” e alla sua popolarità come punta estrema della categoria “più a sinistra” della CGIL (la FIOM) per tornare ad essere cinghia di trasmissione in un mondo dove i cosiddetti “corpi intermedi” sono ridotti all’acquiescenza verso il padronato e i governi, oppure ad una recalcitrante opposizione che, visto l’allontanamento dei ceti popolari e modernamente proletari da molta parte della rappresentanza “di sinistra” (sindacale o politica che sia), non sortisce più l’effetto dovuto entro questo sistema economico.

23 anni fa Rifondazione Comunista proponeva, tra l’indignazione generale di una borghesia stracciona ma perbenista, la tassazione del reddito dei Buoni del Tesoro. A chi ci obiettava d’essere il partito delle tasse rispondevamo che chi ha meno reddito doveva pagare meno tasse e che la “progressività fiscale” che oggi viene riscoperta – insieme alla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario – come fosse una novità mai vista prima nel panorama politico, altro non era se non una norma prima di tutto costituzionale.

La tassazione dei BOT venne agitata come spauracchio dalle destre: “Oddio! I comunisti vogliono tassarci i pochi risparmi che abbiamo”. Era l’esatto opposto, ma la propaganda di quotidiani che oggi si scagliano contro le proposte di un governo disumano e antisociale venne all’epoca sparata contro il PRC e di riflesso contro l’Ulivo prodiano che era in “desistenza” con i pericolosi bolscevichi italiani.

Poco serviva spiegare, argomentare: dire ad esempio che la stragrande maggioranza dei BOT era nelle mani di grandi banche e del mondo dell’industria e che quindi la tassazione dei medesimi, progressiva e non certo stile “flat tax” come va di moda oggi, avrebbe colpito soprattutto i grandi patrimoni e non certo i medi e piccoli risparmiatori.

Iniziava ad intravvedersi già allora la moda dello slogan semplicistico e la virtù tutta italica dell’abboccamento al semplficazionismo di più bassa lega, nonostante fosse ancora possibile in televisione esprimere pareri contrari e non darsi sulla voce o fare lunghi monologhi ministeriali con giornalisti fintamente detrattori dell’ospite illustre presente in trasmissione.

Dal timore di una povertà, che la sinistra comunista avrebbe portato con sé tramite una sua vittoria insieme al centrosinistra, si sono fatti grandi passi con moderni stivali delle sette leghe: oggi si parla di invasioni di interi continenti verso altri continenti, di migrazioni che sono epocali e che rimarranno nei libri di storia (almeno si spera) ma che non rappresentano di certo la prima causa di destabilizzazione di una economia malconcia per lo scontro tra i giganti di un capitalismo che si chiamano Asia, Stati Uniti d’America e Unione Europea.

Proprio dell’Unione Europea oggi ci dobbiamo occupare, da parte italiana, in un Paese che partecipa attivamente alla ricostituzione di movimenti völkisch di chiaro stampo neonazista e neofascista.

Alla disperazione dei ceti popolari, dei lavoratori, dei disoccupati e dei precari dobbiamo rispondere con proposte serie, come la patrimoniale, con un nuovo stato sociale universale che comprenda tutti coloro che oggi sono egemonizzabili dalle destre proprio perché nessuno a sinistra, nessuno dal centrosinistra ha dato risposte risolutive alla sopravvivenza dei poveri, ma ne ha peggiorato le condizioni.

La chiarezza deve essere l’origine dei nostri programmi, delle nostre proposte: il nostro nuovo comunismodeve essere parte della sinistra moderna, della lista che si chiama con grande semplicità “la Sinistra”. Da anticapitalisti dobbiamo portare la nostra cultura critica, il nostro essere avversi al capitalismo “senza se e senza ma” come nuovo fondamento di una rifondazione che non si è arresa prima che come Partito proprio come “movimento reale”, seppur deficitario, disperso e atomizzato a causa di propensioni governiste che non hanno fatto altro che portare nocumento ad una vera unità di intenti tra socialisti di sinistra e comunisti, libertari, ecologisti e quanti altri avrebbero voluto e oggi vogliono fare un cammino comune.

23 anni fa ci chiedevamo “come rispondiamo” a tante domande che gli elettori ci ponevano: da operai, da lavoratori, da studenti, da pensionati e da sfruttati generalmente intesi. Oggi le domande se le fanno in pochi e in tanti accettano teoremi di destra estrema che dilaniano il Paese e separano il povero dal povero, lo sfruttato dallo sfruttato.

La vera unità, 23 anni dopo, la possiamo ancora costruire: non fondendo aspetti ideologici differenti, ma coniugandoli insieme riprendendo quel binomio antico e così tanto necessario che ancora risponde al concetto di “autonomia e unità”. Possiamo convivere in una alleanza che comprenda culture di sinistra differenti per tattica. Dobbiamo costruire però una strategia comune.

Abbiamo ricominciato ancora una volta. Abbiamo rimesso da parte lo scoramento e la desolazione degli anni passati e recenti. Non ci è consentito essere rassegnati. Ci è d’obbligo obbedire alle nostre coscienze critiche. Noi che, con sofferenza, ancora le conserviamo e che vogliamo siamo manifeste e sempre più diffuse.

23 anni, in fondo, sono niente nei tempi dell’universo. Ma per ora stiamo con i piedi ben piantati per terra. Sulla terra dei disperati e degli oppressi. Come sempre abbiamo fatto.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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