Luigi Di Maio, Giuseppe Conte e Matteo Salvini - (foto da governo.it)

Mauro GallegatiPier Giorgio Ardeni

I flussi elettorali 2018 dimostrano che la disuguaglianza è stata il motore che ha alimentato l’ascesa populista. Ma le élite economiche, anche progressiste, hanno perso di vista l’aumento delle disuguaglianze.

L’Italia non è ancora uscita dalla crisi iniziata nel 2008 e la lunga stagnazione ha finito col coincidere con l’aumento del consenso dei populisti. Il successo dei partiti populisti, in Italia come in Europa, è stato interpretato come reazione dei “perdenti della modernizzazione”, non solo quelli per i quali essa ha portato salari fermi, mobilità sociale verso il basso, precarizzazione del lavoro e tutti gli svantaggi della rivoluzione tecnologica, ma anche i “perdenti culturali”, disorientati dai cambiamenti nei valori portati da nuove ondate migratorie potenzialmente minacciose. A ciò si è aggiunta l’Unione Europea, con le sue politiche di bilancio e di tagli della spesa sociale, che ha consentito ai sovranisti di ergere il vessillo della perdita della sovranità nazionale verso l’UE a difesa dei ceti indifesi. 

Se esaminiamo da vicino l’ascesa dei partiti populisti, possiamo concludere che è l’aumento della disuguaglianza – misurata dalla distribuzione del reddito – ad esserne stata la grande incubatrice. I risultati delle elezioni del 4 marzo 2018 per collegio elettorale sembrano rispecchiare molto da vicino i dati sulla distribuzione del reddito (Ardeni, 2019). La Lega, ad esempio, appare raccogliere preferenze elettorali diverse nelle varie aree italiane: nelle regioni settentrionali ottiene il voto delle classi a basso e medio reddito; nel Centro e nel Sud, essa raccoglie le preferenze dalle classi a basso reddito in un voto anti-establishment. Tuttavia, in quelle stesse regioni, la Lega è in concorrenza con il partito M5S, che generalmente ottiene le preferenze delle classi di reddito medio e medio-basso. Il voto per la Lega nelle regioni settentrionali è più un voto anti-immigrazione (e antieuropeo), mentre nel Meridione sembra essere un voto più “sovranista”. Il voto per il M5S è un voto anti-establishment da parte dell’elettorato medio-basso e piccolo-borghese del Nord, mentre nel Sud raccoglie i voti delle classi più povere e quelle a reddito basso e medio basse minacciate dalla globalizzazione e dalla crisi dello Stato sociale. 

Le correlazioni tra distribuzione del reddito e voto sembrano confermare queste interpretazioni. In sintesi, le semplici correlazioni tra le percentuali di voto e la concentrazione relativa della popolazione per classi di reddito, mostrano che le classi di reddito medio-basso tendono a favorire i due principali partiti populisti. Dove la concentrazione è superiore alla media – dove i collegi sono più poveri – il M5S viene premiato; dove invece le classi medio-basse sono più presenti, è la Lega ad essere premiata.

Per il PD e il Centro-sinistra, invece, le correlazioni positive più alte sono tra le classi ad alto reddito, in particolare al Nord, dove le percentuali di voto sono più alte. E le correlazioni negative maggiori sono con le classi a basso reddito nei collegi dove le percentuali di voto a sinistra sono più alte. 

La sinistra, da tempo, sembra aver rinunciato al suo mandato originario e non è riuscita a dare risposte ai suoi elettori “naturali” colpiti da crescenti disuguaglianze economiche: ciò ha lasciato al populismo anti-establishment l’opportunità di prendere il centro della scena. Il M5S ha riempito parte di quel vuoto, fornendo risposte, almeno nominalmente, a tali richieste. La Lega, nata come una frangia locale della destra ora moderata, ha ripreso il discorso populista delle destre radicali, cavalcando i temi dell’immigrazione e della sicurezza più sensibili per le classi più svantaggiate. Quindi, in entrambi i casi, la disuguaglianza è stata il motore che ha alimentato l’ascesa populista. 

Ciò sembra confermare il legame tra disuguaglianza e populismo: le risposte alla perdita di fiducia, alla scarsa mobilità sociale, alle politiche di consolidamento fiscale che hanno messo ai margini classi a reddito basso e medio, sono state fornite dai populisti, non da quelli che avevano ricevuto quel mandato, per tradizione. È un populismo che è sbocciato dove la sinistra progressista, più della destra conservatrice, avrebbe dovuto prendere il testimone di “difendere il 99%”. Le élite economiche, come quelle progressiste, hanno perso di vista l’aumento delle disuguaglianze e sono state considerate insensibili ai valori dello Stato sociale e dell’uguaglianza. Gli abbienti e i non abbienti sono venuti allo scontro e i non abbienti si sono (elettoralmente) vendicati. 

Semplici correlazioni tra dati statistici non fanno una prova, ma sono un indizio pesante. Ciò che è chiaro è che la disuguaglianza è all’origine del consenso populista e finché le sue determinanti non verranno attaccate alle radici esso non potrà che perdurare

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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