Non faccio mai gli auguri di pasqua. Naturalmente ringrazio quando me li fanno, per educazione – la mamma mi ha insegnato così – e perché qualche volta sono perfino sinceri: in tutti questi casi – anche quando sono auguri convenzionali – contraccambio un po’ genericamente, del tipo “anche a te e alla tua famiglia”. Sorrido quando mi fanno gli auguri persone musulmane – non sono tenuti a sapere che sono ateo e so che sono animate da buone intenzioni – e allora contraccambio con un po’ più di calore. Non faccio gli auguri di pasqua perché questa è davvero la festa più incomprensibile per noi che non crediamo: un uomo può essere nato e può essere morto – e quella sua vita può dirci comunque qualcosa, anche se non crediamo che quell’uomo sia dio – ma certamente non posso credere che un uomo sia risorto.
Pasqua è una parola molto antica che, come succede sempre in questi casi, ci racconta una storia. E’ una parola che è arrivata nel greco antico e nel latino, pur con qualche corruzione – e quindi a noi – dall’aramaico e deriva dal verbo pasach, che significa propriamente passare oltre. Quando gli ebrei vivevano come schiavi in Egitto, il loro dio fece di tutto per liberarli, scagliando contro gli egiziani punizioni terribili: fece invadere quella terra dalle rane e poi dalla cavallette, fece piovere fuoco, lasciò il paese nelle tenebre per tre giorni. Ma visto che gli egiziani non capivano, alla fine mandò una pestilenza che uccise il primogenito di ogni famiglia del paese, da quella del faraone a quella del più umile dei suoi servi. Gli ebrei fecero un segno sullo stipite delle porte delle proprie case – con il sangue di agnello – affinché l’angelo della pestilenza passasse oltre. La pasqua è il ricordo di questa strage, di questo incredibilmente violento atto di terrorismo – oggi lo definiremmo così – che permise agli ebrei di tornare a essere liberi. La pasqua è la festa della loro liberazione. Ed è bello festeggiare una liberazione: lo facciamo anche noi. Anzi dovremmo farlo di più e con più passione. Poi la pasqua è anche un’antichissima festa della primavera, del risveglio della natura, dei giorni in cui vengono raccolte le nuove spighe d’orzo con la cui farina, senza attendere che si formi il lievito, si preparano i primi pani del nuovo anno; e di feste come questa ce ne sono in tutto il mondo, non solo nel bacino del Mediterraneo.
Evidentemente quel popolo si è dimenticato di questa storia così antica, se combatte con tanta violenza contro quelli che si vogliono liberare dal loro giogo e che non esitano, in nome di questa richiesta di libertà, a esercitare ogni forma di lotta, anche la più estrema. Sono passati davvero tanti secoli da quando un ignoto storico di quel popolo ha scritto questa storia e oggi non siamo più disposti – sembra – a tollerare una tale forma di violenza per giustificare la lotta per la libertà. Anche se non sono passati molti anni da quando i nostri padri e i nostri nonni hanno combattuto – con ogni mezzo, compresi quelli che oggi definiremmo atti terroristici – per la libertà di questo paese, per la libertà di cui oggi oggettivamente godiamo.
Se nei prossimi giorni non festeggeremo la festa cristiana della resurrezione, proviamo almeno a pensare da cosa e da chi oggi ci dovremmo liberare. Chi è oggi il faraone che ci tiene schiavi? Milioni di donne e di uomini sono letteralmente schiavi di questo nuovo faraone: nelle miniere dell’Africa, nelle fabbriche dell’India e della Cina, nelle discariche di rifiuti disseminate in ogni angolo del pianeta. A noi non sembra di essere schiavi, certo non lo siamo come loro, ma siamo costretti ogni giorno a consumare, a produrre rifiuti, a comprare – magari anche nel giorno di pasqua, perché i templi del nuovo faraone non devono mai chiudere – è una forma più subdola di schiavitù, perché è piacevole, perché apparentemente ci lascia liberi di scegliere, ma è una libertà spesso illusoria, in cui le sole opzioni a noi concesse sono le marche che abbiamo di fronte negli scaffali dei supermercati, ma non siamo ormai più liberi di non consumare.
Io non credo che noi avremo mai la forza di liberarci. Non so se lo faranno i nostri figli, anche se comincio a dubitarne. Almeno conserviamo la nostalgia – se non la speranza – della liberazione.

se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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