di Franco Astengo

Mentre Repubblica (sic) titola:

Altro che Festa del Lavoro.

Un giovane su tre non ha un posto.

In 10 anni raddoppiati i sottoccupati.

Il 25% ha un impiego inferiore al titolo di studio.

Perso in totale un milione di posti a tempo pieno.”

Sulla stampa italiana si legge anche questo:

Proprio a cavallo del 1° maggio, in questi tempi così paradossalmente complessi da interpretare, è toccato proprio al Corriere della Sera, l’antico “Corriere dello Zar” un tempo espressione della grassa borghesia lombarda, analizzare il momento (lungo) di grande difficoltà che sta attraversando il sindacato confederale italiano.

Nell’inserto “Economia” di lunedì 29 aprile l’argomento è affrontato da Ferruccio de Bortoli sotto il titolo “Piccoli gilet senza più classe”.

Nell’occasione l’ex – direttore del quotidiano milanese recensisce il saggio di Daniele Marini “Fuori classe” contenuto nel volume del Mulino “Fuori Classe. Dal movimento operaio ai lavoratori imprenditivi della Quarta Rivoluzione Industriale”.

Nel saggio si segnala, tra l’altro, come i lavoratori iscritti ai sindacati confederali Cgil, Cisl, Uil, siano attualmente 11 milioni 851 mila, ma gli attivi risultano soltanto il 58,3% del totale (nel computo non compaiono i sindacati autonomi e quelli di base).

Nell’articolo si segnalano, tra gli altri, due punti di grande importanza contenuti nel saggio di Marini:

1)      Dato atto al sindacato confederale di aver svolto un ruolo fondamentale nel consolidamento della democrazia in Italia, se ne evidenzia la loro attuale eccessiva debolezza considerata come simbolo di una malattia degenerativa del sistema generata dall’individualismo, dall’assenza di valori, dal prevalere degli interessi corporativi;

2)      Nel saggio si segnala come nell’attualità il vero problema sia rappresentato, non solo per i sindacati ma per l’intera società, dall’indifferenza e dall’assenza di capacità di rappresentanza.

 Considerata la necessità di ricordare come nel frattempo sia mutata la struttura industriale del paese, non difesa da istituzioni autorevoli e da una dimensione adeguata di tessuto produttivo,nel testo si omette però di ricordare come in questa situazione si sia giunti attraverso un passaggio fondamentale, quello relativo alla concertazione.

Dalla concertazione si è passati alla disintermediazione di stampo renziano che ha rappresentato un vero e proprio apripista per l’antipolitica dominante in questa fase .

Antipolitica fondata proprio sui due elementi già ricordati nell’articolo: l’individualismo e il corporativismo.

Ricordando ancora come il ruolo dei lavoratori e del sindacato nella fase di consolidamento della democrazia fosse passato durante il complesso periodo della riconversione dell’industria bellica e della ricostruzione del Paese attraverso una lunga fase nel corso della quale la classe operaia e contadina pagò un alto tributo di sangue, nell’occupazione delle fabbriche e delle terre: da Portella della Ginestra a Modena, da Melissa a Montescaglioso, da Avola a Battipaglia fino all’estate del ’60, quando a Reggio Emilia, Licata, Palermo, Catania furono uccisi dalla Polizia operai antifascisti scesi in piazza per protestare contro un governo sostenuto dagli eredi del fascismo.

A questo punto cerchiamo allora di individuare nella memoria i termini nei quali il sindacato, con tutti i limiti e le contraddizioni del caso, rappresentasse ben altro da essere oggetto di indifferenza, individualismo, corporativismo.

Anche questa volta intendiamo, come c’è capitato in altre occasioni, apparire ostinati custodi della memoria.

Non ci tormentano rilievi che tendono a dipingerci come incapaci di vedere il “nuovo che avanza”.

Ostinatamente intendiamo insistere nel rammentare, prima  di tutto a noi stessi e poi anche a qualcun altro che può contribuire a mantenere viva la memoria, quali erano i pilastri di quel sindacato che abbiamo, in altri tempi, cercato di definire come “soggetto politico” a tutto tondo.

Non sviluppiamo in questa sede la storia del sindacato italiano, la sua nascita parallela (a differenza di altre situazioni in Europa) alla formazione dei grandi partiti socialisti di massa, al fatto che accanto alle rivendicazioni puramente sindacali si situassero, sullo stesso terreno di lotta, le rivendicazioni di tipo politico: la libertà d’associazione, la libertà di stampa, l’allargamento del suffragio (quanti ricordano che, al momento della proclamazione del Regno d’Italia il diritto di voto era riservato a meno del 2% dei cittadini, in un paese con l’analfabetismo all’80% ?).

Poi, nel secondo dopoguerra, le diverse fasi della rottura e del recupero dell’unità sindacale, le grandi battaglie degli anni’50 in difesa delle fabbriche nella tormentata temperie della riconversione dell’industria bellica e dell’intervento pubblico, poi il “boom”, il consumismo (elemento sul quale andrebbe aperta una riflessione sincera e spregiudicata), la migrazione biblica dal Nord al Sud, l’avanzamento sociale, l’allargamento dei diritti universali e soggettivi avvenuto sul terreno della lotta.

Quale può essere, allora, il senso di questa estrema sintesi di ricostruzione storica?

Appunto, quello, di ricordare i pilastri su cui poggiava il sindacato italiano: non perché oggi si possa recuperare quella realtà, ma come punto di riferimento, nozione di idea-guida, tentativo di mostrare, partendo dal passato, un possibile campo di scelta.

Il primo elemento che è necessario sottolineare è quello dei collegamenti internazionali: oggi sono richiamate “convenzioni internazionali” sui diritti, strumenti sicuramente importanti ma nella maggior parte disattesi. Il punto risiede, invece, nella necessità di ripresa e sviluppo di organizzazioni sindacali che , attorno al nodo della realtà economica e produttiva internazionale, si muovano unitariamente in una dimensione transnazionale. Chiediamo, allora, a quanti sicuramente conoscono la situazione meglio di noi: come sta la CISL internazionale (cui anche la CGIL italiana aderì nel momento della chiusura dell’esperienza della FSM. Esiste ancora ?

Posta questa domanda, passiamo ad elencare quelli che abbiamo definito “ i tre pilastri”:

1)      Il Contratto Collettivo nazionale di categoria: lo smantellamento di questo istituto ha rappresentato, prima ancora che sul piano normativo ed economico, il punto esiziale per il riconoscimento di un sindacato soggetto politico generale che ha, sempre e comunque, la sua ragion d’essere; il decentramento sotto questo aspetto, che pure poteva rappresentare parzialmente un momento di grande interesse nello sviluppo di vertenze d’azienda e territoriali, non doveva sostituire il momento fondamentale per un sindacato unitario dal punto di vista della rappresentanza sociale, come quello della stipula del contratto collettivo nazionale di categoria;

2)      La scala mobile. Oggi, a distanza di tanti anni, credo si comprenda meglio il valore di quella battaglia perduta e ci permettiamo di non aggiungere altro;

3)      La rappresentanza di tipo “consiliare” all’interno dei luoghi di lavoro. Senza alcun accento nostalgico (di cui pure ci potrebbe essere ragione) è necessario ricordare come un sindacato serio possa poggiare soltanto su di un’unità di base che i “consigli” erano in grado di assicurare, pur dentro ad un dibattito acceso, non unanimistico, che rifiutava – ed è questo un altro punto decisivo- il neo corporativismo

4)      Potremmo ricordare, ancora, come la presenza contemporanea di questi tre elementi (il contratto collettivo garantito dallo Statuto dei Lavoratori; la scala mobile, ricordando l’accordo Lama-Agnelli in maniera opposta da come viene inteso nel citato articolo di De Bortoli; il sindacato dei consigli emerso dalla grande stagione del 68-69) coincise con il momento più forte e più alto della presenza sindacale nel nostro Paese, e di avanzamento delle ragioni dei diritti e del miglioramento della qualità della vita per tutti, non soltanto per i lavoratori dipendenti.

Qualcuno obietterà: c’era la classe operaia nelle grandi fabbriche: la classe operaia forte, stabile, concentrata.

Giustissimo, e la classe operaia era legata a un’idea di sviluppo industriale che il nostro Paese, a differenza di altri partner europei, ha abbandonato da tempo.

Abbiamo puntato, anche dal punto di vista sindacale, su di una visione sbagliata del ciclo liberista:

A un punto tale che perfino il Corriere della Sera segnala (e rimprovera) l’abbandono proprio da parte del sindacato confederale del concetto decisivo e inestirpabile di coscienza di classe.

Di AFV

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