C’è una modalità di “fare politica” che è sempre andata di moda sin dalla notte dei tempi. E con “notte” si intende non solamente il fatto che sia molto antica ma anche, e specialmente, che caratterizzi un periodo buio, nel quale si attraversano enormi difficoltà e sfide dinnanzi alle quali ci si trova brancolanti e incapaci di reagire nel modo corretto o, semplicemente, nel modo meno sbagliato. Tipo, insomma, nella fase attuale. Ma quando in un periodo buio le formazioni politiche sono inadatte a reagire, cosa significa nello specifico? In primis significa che sono disorganizzate, frammentate, che il loro passo si è drammaticamente disallineato con quello della classe di riferimento che non riescono più a penetrare, a interpretare e, spesso, si limitano a inseguire anziché occuparne le posizioni d’avanguardia. Ma significa pure che esse hanno perduto il reale significato dell’afflato umano che dovrebbero incarnare, perse nei meandri di un costume comportamentale/umano, prima ancora che politico, da basso impero, trucido, squallido, imbroglione, miserabile. L’ideologia dominante – tutte, da quella imperante in epoche remote sino a quella odierna, giacché non è ancora mai nemmeno incominciata la vera Storia degli esseri umani, ancora imbrigliati nelle catene dello sfruttamento reciproco, giunte oggi solo alla loro più recente versione – ha sempre avuto interesse, proprio per mantenere intatto il proprio dominio, ad affermare una concezione di umanità infima in quanto rassegnata, disincantata e spenta, fornendo quale valvola di sfogo alle frustrazioni sociali e quotidiane la coltivazione di un suprematismo che dia l’illusione di poter elevare se stessi sugli altri o, al limite e spesso al contempo, incoraggiando un’estetica decadente, simil-bohemienne ed inconcludente che spinga le anime a spegnersi nei fumi della droga, dell’alcool o di altre forme di dissoluzione pur di non maturare alcuna coscienza critica del mondo o di solidarietà verso l’altro. Durante un’intervista nel 1963 Che Guevara disse di essere disinteressato alla realizzazione di un socialismo economico che lottasse contro la miseria, senza la parallela costruzione di una morale comunista in grado di combattere l’alienazione. In effetti è evidente, o dovrebbe esserlo a chiunque si professi comunista, il fatto che non è possibile raggiungere l’altissimo obiettivo che ci prefiggiamo prescindendo dalla dismissione e dal risoluto rifiuto di tutto l’apparato etico, valoriale e comportamentale funzionale alle classi dominanti, lo stesso che, nelle fasi buie, dilaga, riemerge e si propaga. Ora, si diceva in apertura, di fronte a tutto questo noi comunisti siamo, almeno in Italia, ancora nulla. Abbiamo ribadito questo concetto in tutte le salse e offerto, tutti, centinaia di migliaia di analisi relativamente ai motivi della sconfitta politica subita qualche decennio fa, e altrettante centinaia di migliaia di tentativi politici di riemersione da un tale baratro, alcuni sensati, altri mere scorciatoie, alcuni in grado di suscitare delle ondate di mobilitazione, altri meno efficaci. Ma il punto che ci piacerebbe focalizzare qui con questo scritto non è, ancora, relativo a questa analisi politica o a quale nuova ricetta dell’osteria dell’avvenire propinare che abbia senso anzichenò, ma soffermarci un attimo sulle modalità di azione dei comunisti, sulle prassi comportamentali, su alcuni aspetti, oseremo dire, umani. L’inettitudine rispetto a come affrontare le problematiche è tale per cui, evidentemente, non risultando tangibile nel prossimo futuro la possibilità di realizzare e ottenere il rovesciamento rivoluzionario della società dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, taluni non riescono più nemmeno a percepire la grandiosità morale di tale istanza, non essendocene nessun’altra paragonabile a questa. Questa incapacità rappresenta un problema reale in quanto se dai comunisti possono provenire le più alte battaglie per i più alti scopi immaginabili, i comunisti, a differenza di altri, non possono permettersi alcun genere di cedimento o infatuazione per i volgari metodi borghesi di rapportarsi all’altro (tanto più, se “altro” è un compagno o un gruppo i compagni) sul piano personale e/o politico come, ad esempio, ricorrendo al metodo della minaccia, dell’infamia, della calunnia, del discredito, del “dossieraggio” e via smerdando. Ma nella penuria di soluzioni politiche efficaci, nella lacunosità e parzialità delle analisi, ancora una volta ad alcuni appare più comodo, molto più comodo, emergere dal pantano affossando altri. O forse sarebbe meglio dire: emergere dallo sfacelo dell’attuale barbarie affossando non il nemico di classe – vale a dire il padrone, contro cui non si sa che pesci pigliare – ma affossando altri compagni perché la pensano diversamente, perché hanno una faccia antipatica, perché “qualcuno ha detto che”, perché fanno “concorrenza” e via maledicendo. E così, il compagno che su una determinata questione la pensa diversamente (e che potrebbe divenire un possibile alleato in un’altra occasione) diviene un nemico da battere e abbattere a prescindere e ad ogni costo. Ovviamente questo non ha nulla a che vedere col dire “la verità” su qualcosa o qualcuno, che è invece rivoluzionaria in quanto è un fatto scientifico. La verità, per essere tale, deve poter essere confutabile e verificabile, e non ha nulla a che vedere coi pregiudizi, coi dogmi, con le dicerie, con l’assenza di dialogo o di contraddittorio, col chiacchiericcio da corridoio e il pettegolezzo, che rimandano a una prassi (politica e non) superficiale, arronzata, superstiziosa, pregiudizievole… squallida. Non c’è poi tanta differenza tra questo atteggiamento e quello dei politicanti borghesi di mezza tacca, tra questi pettegolezzi meschini e i peggiori salotti televisivi dove certe soubrette si urlano addosso, tra chi riceve e trasmette certi pregiudizi infamanti senza alcun tipo di verifica dei fatti e chi pretende di informarsi sui post letti sulla bacheca di Facebook. Chiunque, dal dirigente al militante politico comunista, utilizzi deliberatamente e sistematicamente come metodo politico la calunnia contro altri compagni attraverso i più svariati e fantasiosi mezzi commette due atrocità assieme: da una parte, si auto-degrada a scendere alla coda del più retrogrado popolino, utilizzandone gli stessi bassi e miseri metodi di attacco, con la differenza che, a differenza di quest’ultimo, dovrebbe avere elaborato un’altra e progredita visione del mondo; dall’altro rafforza senza dubbio e in ultima istanza il nemico borghese in quanto quest’ultimo non solo non riceve su di sé gli effetti degli sforzi del movimento comunista organizzato per abbattere il capitalismo ma si rafforza e si sollazza della sua frammentazione senza avere mosso un solo dito in più del dovuto. Pertanto oggi più che mai, è necessario abbandonare la logica delle parrocchiette, quella cioè che punta ad esaltare la propria setta nell’ottica che essa sia il partito in nuce e, in particolare, la concezione suicida per cui chi sta immediatamente alla tua sinistra è il nemico principale e perciò qualsiasi mezzo per attaccarlo, anche il più infame, è giustificato. Contro questa logica è invece necessario rilanciare una prospettiva unitaria del fronte anticapitalista e antimperialista e del movimento per la ricostruzione del partito comunista, basato sul riconoscimento delle ragioni del compagno che la pensa diversamente quale fondamento dell’intellettuale collettivo

https://www.lacittafutura.it/editoriali/il-nemico-non-marcia-sempre-alla-nostra-sinistra

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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