E’ il 20 ottobre 1953, un poliziotto sorprende due uomini che si stanno baciando clandestinamente in un bagno pubblico di Chelsea. Li arresta: l’omosessualità è un reato nel Regno Unito, in base a una legge emanata ai tempi della regina Vittoria – che sarà abrogata solo agli inizi degli anni Sessanta – e l’allora Segretario di stato per gli affari interni David Maxwell Fyfe, conservatore, ha lanciato una campagna dai forti toni omofobici affinché questa norma sia rispettata e gli omosessuali arrestati, senza eccezioni. Quando l’agente scopre che il “cliente” è una persona famosa, capisce che è il suo giorno fortunato: quell’arresto gli procurerà certamente un encomio. E naturalmente la notizia che John Gielgud è stato arrestato con quell’accusa infamante si diffonde immediatamente, perché è un sir, nominato solo pochi mesi prima, e soprattutto uno dei più famosi attori teatrali della sua epoca.
Ma, come si dice, lo spettacolo deve continuare. Gielgud è in scena a Liverpool, per provare un nuovo spettacolo prima di portarlo a Londra. Il sipario si sta alzando, ma lui non vuole uscire, teme la reazione del pubblico. Nella compagnia c’è la grande Sybil Thorndike, allora già settantenne, una delle più acclamate attrici del suo tempo, la cui interpretazione di Lady Macbeth negli anni a cavallo della prima guerra mondiale è rimasta nella storia. Nel film del 2011 Marylin, in cui si racconta la complicata realizzazione de Il principe e la ballerina, Sybil Thorndike, che recitò in quel film accanto a Olivier e alla Monroe, è interpretata, con una scanzonata franchezza, da una splendida Judi Dench: solo una regina poteva interpretare un’altra regina. Quella sera a Liverpool Sybil, che ha capito perché Gielgud sta così male, lo prende sotto braccio e lo trascina letteralmente in scena, dicendogli: “vieni, caro John, non fischieranno mai me”. Quando Gielgud appare sul palcoscenico il pubblico si alza in piedi e gli tributa un lunghissimo applauso, che cancella, almeno per quella sera, ogni preoccupazione dell’attore: il pubblico inglese ama Gielgud e non gli interessa chi lui ami. Comunque sia John Gielgud non supererà mai del tutto quella vicenda: dovrà fermarsi per qualche mese, per una crisi nervosa, e, nonostante il supporto che ha sempre dato privatamente alla causa per i diritti degli omosessuali, non riuscirà mai a prendere una posizione pubblica sul tema né a fare coming out. Per lui sarà sempre una ferita aperta.

Io ho cominciato ad amare John Gielgud grazie ad Assassinio sull’Orient express: sono bastate pochissime scene, un paio di battute fulminanti, il modo in cui Beddoes alza lo sguardo, quel suo contegno così maledettamente inglese, per colpirmi per sempre. E poi mi è capitato di incrociare Gielgud alcune altre volte al cinema, a cui ha regalato, nel pieno della sua maturità artistica, anche se sempre in piccoli ruoli – ma per un grande attore non ci sono mai piccoli ruoli – la stessa compassata misura, la stessa ieratica energia, sia che interpretasse un vecchio professore di musica o un vicere o un papa – i cameo di personaggi storici sono diventati nella vecchiaia una delle sue specialità. Poi l’ho trovato in uno dei pochissimi film che ha interpretato negli anni della prima maturità: nel 1953 è nel cast del Giulio Cesare di Mankiewicz, quello con Marlon Brando, che aveva soggezione quando Gielgud, che interpretava Cassio, era sul set.
Poi, approfondendo un po’, ho scoperto che John Gielgud è la storia del teatro inglese del Novecento, insieme a Laurence Olivier e a Ralph Richardson. Credo meriti raccontare qualcosa del rapporto tra questi tre grandi attori, che naturalmente lavorarono diverse volte insieme, anche se tra loro non mancarono tensioni. Erano proprio Gielgud e Olivier a non amarsi troppo, anche se ovviamente si stimavano. Nel 1932 John e Laurence erano stati, insieme a Peggy Ashcroft, i protagonisti di una celebre messa in scena di Romeo e Giulietta, in cui si scambiavano, di settimana in settimana, i ruoli di Romeo e di Mercuzio. E sarà l’ultima volta che lavorarono insieme sulla scena. Ma quando nel 1955 Laurence Olivier, al massimo della sua popolarità, decide di girare una versione cinematografica del Riccardo III, vuole accanto a sé i migliori attori del suo tempo: Gielgud è il duca di Clarence, fratello di Riccardo, Richardson il duca di Buckingham e Cedric Hardwicke re Edoardo IV. Nel cast di quel film c’erano quattro sir, come non facevano mancare di notare i press agent incaricati di pubblicizzare il film. Invece Gielgud e Richardson lavorarono molto spesso insieme, da quando nel 1930 avevano interpretato rispettivamente Prospero e Calibano ne La tempesta. Naturalmente le loro prove migliori le diedero in teatro, soprattutto con Shakespeare, ma recitarono sia in radio – in cui fecero “vivere” Sherlock Holmes e John Watson – che in televisione.
Guardando il lunghissimo Hamlet di Kenneth Branagh, capiamo che Gielgud era qualcosa di più del perfetto maggiordomo, un ruolo per cui ha vinto l’Oscar nel 1981, grazie a un film che, se non ci fosse lui, non sarebbe certo memorabile. Se Branagh, nel realizzare la sua versione integrale del dramma shakespeariano, ha deciso di aggiungere una scena, mostrando la morte di Priamo e il dolore straziante di Ecuba, mentre il capocomico – interpretato da un grande Charlton Heston – recita i suoi versi dedicati alla presa di Troia, e ha affidato queste due “nuove” parti, mute, a John Gielgud e a Judi Dench, il significato mi pare sia chiaro: si tratta dell’omaggio a due riconosciuti maestri.
E nel 1994, per festeggiare i novant’anni del l’artista, tanti attori decidono di mettere in scena un radiodramma in cui John Gielgud torna a recitare uno dei suoi ruoli più simbolici, Lear. Accanto a lui le tre figlie sono Judi Dench, Eileen Atkins ed Emma Thomson e Derek Jacobi, Kenneth Branagh, Simon Russell Beale, Bob Hoskins, Richard Briers e tanti altri partecipano al progetto.
Perché John Gielgud, grazie alle sue rappresentazioni degli anni Trenta e Quaranta, è stato il più grande Amleto del Novecento. I giornali del tempo raccontano che gli altri attori della compagnia, quando non erano in scena, stavano comunque dietro le quinte per guardarlo recitare, consapevoli che stavano vivendo un momento unico della storia del teatro.
Dell’Amleto di Gielgud, oltre alle testimonianze di chi ha avuto la fortuna di vederlo, ci rimangono alcune foto e un radiodramma del 1951, con Dorothy McGuire – la splendida Sylvia di Scandalo al sole – come Ofelia e Pamela Brown nella parte della regina. Forse troppo poco per capire quanto John Gielgud sia stato grande, quanto abbia influenzato gli attori con cui ha lavorato, che lo hanno visto recitare, a cui ha insegnato. Dobbiamo accettare che noi non sapremo mai come è stato il più grande Amleto del Novecento.
È il destino di una generazione di grandi attori, la cui arte noi non potremo mai conoscere e riconoscere. O forse è proprio il teatro a essere così, in qualunque tempo, anche nel nostro dominato da un’apparente riproducibilità tecnica: perché ogni rappresentazione di ogni spettacolo, per quanto sia provato e riprovato, è sempre un unicum, che solo i pochi – e felici – spettatori che proprio quella sera sono andati a teatro possono dire di aver visto. L’arte del teatro è qualcosa di evanescente, che si consuma, qui e ora, in un tempo e in un luogo, nel rapporto tra le donne e gli uomini che stanno di qua e di là del sipario.
E quando Shakespeare fa dire al vecchio Prospero

Noi siamo della materia di cui sono fatti i sogni, e la nostra piccola vita è circondata da un sonno.

forse parla proprio di sé, della sua arte, e del mestiere misterioso dell’attore.
Nel 1991, il quasi novantenne John Gielgud gira il suo ultimo film da protagonista, Prospero’s Books di Peter Greenaway. Guardatelo, mentre recita questa battuta, rivolgendosi a noi, a ciascuno di noi, che non abbiamo mai visto il suo Amleto.

se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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