Passeggiando lungo la 42esima strada di New York, tra i grandi teatri e Times square, tra la sede delle Nazioni Unite e la Grand Central station, tra il Chrysler building con la sua caratteristica guglia art déco e la storica sede della biblioteca pubblica della città, potreste non notare l’edificio di soli diciotto piani che si trova al 33 west, che attualmente ospita il Dipartimento di optometria dell’Università di New York. Questo edificio è stato progettato dallo studio Warren e Wetmore e completato nel 1912 per ospitare la sede della Aeolian company, la più importante azienda produttrice di strumenti musicali automatici: il primo è stato un harmonium che funzionava a dischi di cartone perforati. Al terzo piano dell’edificio c’era una grande sala da concerto, da millecento posti, che si è continuata a chiamare Aeolian hall, anche quando, nell’estate del 1922, la compagnia delle pianole vendette l’edificio alla Schulte cigar stores company. Era una delle sale da concerto più importanti della città ed è stata una delle prime sedi della New York Symphony Society.

E’ il 3 gennaio 1924: due giovani ragazzi di Brooklyn, due fratelli figli di emigrati ebrei di origine russa, sono all’Ambassador billiard parlor sulla 52esima strada, a Broadway. Per vivere scrivono canzoni: Israel – che è il più vecchio e pacato dei due – scrive i testi – mentre Jacob le musiche. Quella notte Jacob sta giocando a biliardo con un altro giovane autore di canzoni, Buddy DeSylva, mentre Israel sta leggendo l’edizione della New York Tribune del 4, appena stampata. Israel avrebbe voluto fare il giornalista, ma ha cominciato presto a fare il paroliere. E’ solo da pochi mesi che lavora insieme a suo fratello, che invece ha dimostrato da subito la sua vena artistica. Per qualche tempo Israel ha scritto i testi per altri musicisti, poi finalmente i due ragazzi hanno deciso di collaborare: e la “ditta” funziona.
L’attenzione di Israel è tutta per un articolo, intitolato Cos’è la musica americana?. Si parla di un grande concerto che il direttore Paul Whiteman e la sua orchestra terranno il 12 febbraio prossimo – il giorno in cui si festeggia il compleanno di Abramo Lincoln – alla Aeolian hall. Si preannuncia un grande spettacolo: Paul Whiteman è definito dai giornali “il re del jazz”.
Israel ha qualche dubbio su quel titolo altisonante, sa che è stato inventato da qualche giornalista in vena di scrivere iperboli. Certo Whiteman è un bravo musicista, ma in fondo non sappiamo ancora cosa sia questo jazz. E poi Whiteman è nato a Denver, è bianco – come loro due – e forse il jazz è solo la musica dei neri. Israel non sa neppure se la musica di Jacob possa essere definita jazz. Sicuramente è una musica nuova, è la loro musica, è la musica dell’America degli anni Venti, è la musica che piace alle persone, che le fa ballare, ma tra un secolo qualcuno la suonerà ancora?
Il concerto di Whiteman – intitolato un po’ pomposamente Un esperimento nella musica moderna – sarà un evento, anche perché nessuno paga gli orchestrali meglio di Whiteman e quindi con lui ci sono tutti i migliori di New York. Lui e Jacob dovranno senz’altro andare a vedere quel concerto. Whiteman apprezza la musica di Jacob, hanno lavorato insieme in qualche rivista e l’ha incoraggiato ad andare avanti. Israel però rimane di sasso quando, quasi alla fine dell’articolo, legge questa frase:

George Gershwin è al lavoro su un concerto jazz, Irving Berlin sta scrivendo un poema dai toni sincopati, e Victor Herbert sta lavorando su una suite americana.

Israel quasi cade dalla sedia e corre dal fratello. Gli fa leggere la fine dell’articolo, i due fratelli si guardano: Jacob ha poco meno di cinque settimane per finire il concerto a cui sta lavorando. Ed è la prima volta che su un giornale compare con il nome di George Gershwin.
La mattina dopo Jacob telefona a Whiteman: è vero, Jacob gli aveva parlato dell’idea di scrivere un concerto in cui mettere insieme il jazz e la musica colta, ha già qualche idea, ma cinque settimane sono troppo poche. Whiteman gli dice che può farcela; e aggiunge che se rifiuta, lo chiederà a Vincent Lopez.

E finalmente arriva il 12 febbraio. In Italia esce il primo numero de l’Unità, con un editoriale firmato da Antonio Gramsci intitolato La via maestra. A New York nevica. All’Aeolian hall va in scena il concerto ideato da Paul Whiteman. La sala è strapiena, in platea ci sono Sergei Rachmaninoff, Igor Stravinsky, Leopold Stokowski, John Philip Sousa e tanti altri musicisti, molto meno famosi e che non lo sarebbero mai diventati. Ci sono tantissimi curiosi e naturalmente quelli che ci sono perché bisogna esserci. Paul Whiteman, con un sorriso come il Gatto del Cheshire, fa gli onori di casa. In scena ci sono due enormi pilastri in stile cinese e un gong: un’ambientazione orientaleggiante piuttosto incongrua, con in mezzo l’orchestra, disposta sue tre gradini a semicerchio. Tutti gli orchestrali indossano ghette grigie. 
L’esperimento non sta riuscendo particolarmente bene: nonostante gli sforzi di Paul Whiteman che dirige con tutto il suo corpo, il pubblico si annoia. Anche perché i ventisei brani in scaletta sono quasi tutti uguali. E poi l’impianto di ventilazione si è rotto.  
Finalmente il penultimo brano: è il concerto jazz di George Gershwin. Parte il glissando del clarinetto di Ross Gorman e il pubblico è come se si svegliasse: è qualcosa che nessuno ha mai sentito, è una musica tutta nuova. Il Novecento ha finalmente la propria musica. 
Jacob ha scritto il suo concerto per due pianoforti, ma Ferde Grofé, il geniale arrangiatore di Whiteman, l’ha riscritto per pianoforte e orchestra: ha finito il 4 febbraio, otto giorni prima del debutto. Al pianoforte, con le sue ghette grigie, c’è lo stesso George Gershwin. E sarà sempre Grofé a scrivere l’arrangiamento per pianoforte e orchestra sinfonica, che diventerà la versione classica di questo concerto. Quando Jacob sarà già morto, lasciando Israel – conosciuto intanto con il diminutivo di Ira – solo con i suoi versi.
Sarà proprio Ira a trovare il nome per il brano, che George avrebbe voluto intitolare Rapsodia americana. Negli stessi giorni in cui il fratello freneticamente scrive il suo concerto, Ira visita una mostra del pittore James Abbott Whistler e i suoi titoli, in cui c’è quasi sempre il nome di un colore, lo ispirano: Jacob sta scrivendo la Rapsodia in blu.

p.s. Naturalmente ci sono tante interpretazioni di questo brano: questa, con Leonard Bernstein che suona il pianoforte e dirige la New York Philharmonic Orchestra, è incredibilmente bella.

se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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