Quando il 4 luglio a largo di Gibilterra i Royal Marines hanno sequestrato la superpetroliera iraniana Grace 1, il Segretario agli Affari Esteri britannico Jeremy Hunt ha definito questo sequestro come il segno che l’Iran non “può nascondersi da nessuna parte”. Il 19 luglio, quando il governo iraniano ha reagito e ha autorizzato la Guardia Rivoluzionaria Iraniana a sequestrare nello stretto di Hormuz la petroliera Stena Impero (svedese di proprietà, ma battente bandiera inglese), Hunt ha descritto questo episodio come un atto di “pirateria di Stato”. Ora, a prima vista, sembra solo un altro noioso esempio dello sfacciato sistema “due pesi e due misure” che ci aspettiamo dai paesi occidentale quando si parla di stati non-vassalli; e questo è sicuramente uno dei casi. Non è il primo articolo in cui richiamo l’attenzione sulla tendenza di Hunt ad utilizzare uno sfacciato doppio standard come questo. Ma successivamente è trapelato che la recente campagna di Jeremy Hunt per la leadership del partito conservatore britannico è stata abbondantemente finanziata da uno stretto collaboratore del principe ereditario saudita Bin Salman. Il banchiere sudafricano e filantropo Ken Costa viene descritto in alcuni ambienti come l’“uomo di punta” di Bin Salman nel Regno Unito. O, se preferite, il suo “portaborse”. Non sorprende, quindi, che Hunt si schieri pubblicamente sempre a favore del Regno Saudita, per esempio deviando le critiche in merito al ruolo saudita nell’aver fatto precipitare la crisi umanitaria in Yemen, o dimostrando una costante ostilità verso l’Iran. Il 7 agosto il Segretario per l’Energia americano Rick Perry ha incontrato il ministro saudita per l’Energia, l’Industria e le Risorse Minerarie Khalid Al-Falih. Secondo quanto riferito, hanno discusso suoi modi per contrastare ciò che considerano i tentativi da parte dell’Iran di “destabilizzare” il mercato petrolifero mondiale, mentre Al-Falih affermava che il Regno Saudita favorisce la politica di incremento della produzione del petrolio al fine di mitigare ogni impennata del prezzo mondiale del greggio. Bene: se gli Stati Uniti si ritirano dall’Accordo sul nucleare iraniano come pretesto per imporre unilateralmente delle nuove sanzioni sul petrolio iraniano, la “destabilizzazione” è inevitabile, e non ci sarebbe alcuno motivo per presentare una tale argomentazione a qualcuno a cui era già ovvio. Si scopre anche che Perry ha molta sabbia saudita sotto le unghie. Il comitato di sorveglianza del Senato americano ha da poco pubblicato un rapporto estremamente critico verso il ruolo che ha avuto Perry a favore della vendita di tecnologia nucleare all’Arabia Saudita. Erano stati fatti dei tentativi da parte della IP3, una azienda di consulenza energetica, per convincere il Dipartimento Americano per l’Energia ad agevolare la vendita senza la firma necessaria da parte dei Sauditi dell’accordo Sezione 123 [in inglese], che avrebbe comportato un impegno per la non-proliferazione delle armi nucleari. Vi immaginate l’Arabia Saudita con armi nucleari? Certo, questi legami sospetti con i Sauditi non segnano particolarmente l’amministrazione Trump. Sono ben documentati i giganteschi finanziamenti sauditi alla fondazione Clinton prima del 2016. Nel periodo in cui Clinton è stata Segretario di Stato, la vendita di armi statunitensi all’Arabia Saudita è aumentata del 97%, tra cui una commessa da 29.4 miliardi di dollari per più di 80 caccia F-15, e l’azienda di consulenza di John Podestà, il suo manager della campagna elettorale, è stata pagata 140.000 dollari al mese per fare lobby per conto del governo saudita. Anche la stessa Fondazione Clinton ha ricevuto circa 10 miliardi di dollari in donazione dal governo dell’Arabia Saudita, mentre Clinton era Segretario di Stato. E glissiamo sulla storia della famiglia Bush con i Sauditi. Quindi possiamo vedere che il livello di penetrazione nei sistemi politici occidentali da parte del governo saudita trascende i confini sia nazionali che ideologici. L’ostilità britannica e americana verso la Repubblica Islamica dell’Iran è di solito analizzata secondo soprattutto il principio ideologico. Tale interpretazione è valida sicuramente sotto molti punti di vista. La rivoluzione islamica dell’Iran rappresenta uno dei movimenti anticoloniali più sorprendentemente forti e di successo nella storia, quindi molti strateghi dell’impero considerano un imperativo la distruzione della rivoluzione islamica, non semplicemente per saccheggiare la immense risorse naturali dell’Iran come facevano prima del 1979, ma anche per le stesse ragioni strategico-ideologiche che la prospettiva geo-strategica occidentale ha storicamente considerato come un imperativo, e cioè che tutte le società rivoluzionarie devono essere distrutte. Inoltre, possiamo scorgere una più profonda confluenza ideologica tra wahhabismo saudita e universalismo liberale, attualmente il paradigma ideologico dominante (ma in rapido declino) in Occidente. Entrambi sono radicati nel pensiero eccessivamente trascendentale del XVIII secolo, cioè in un modo di pensare esplicitamente a-storico, anti-storico e post-storico. Entrambi rifiutano il paragone storico e l’esperienza storica come base fondante per la valutazione delle questioni sociali, politiche, ideologiche ed etiche. Mentre i filosofi francesi del XVIII secolo cercavano di fondare la loro visione del mondo su qualcosa che chiamavano “ragion pura”, libera da ogni considerazione di condizionamento storico e di contesto (una forma filosofica naif fortunatamente non condivisa da nessuna delle più importanti figure dell’illuminismo tedesco), Muhammad ibn Abd al-Wahhab cercava di riscoprire una “pura” versione dell’Islam, libera dall’allegorica ermeneutica coranica dei sofisticati intellettuali persiani. In un articolo del 1 agosto su Inforos, la mia collega Sarah Abed ha sostenuto che l’obiettivo finale degli Stati Uniti in Iran rimane il cambio di regime, da cui la volontarietà nell’usare qualsiasi pretesto fasullo per re-imporre le sanzioni. Afferma che c’è una strategia per continuare a fare pressione economica sullo stato dell’Iran fino a farlo collassare nella sua forma attuale. Concordo certamente con questa analisi ma, andando a scomporre i vari fattori motivanti alla base di tutto ciò, la nostra enfasi ampiamente giustificata sui temi ideologici e geo-strategici talvolta non ci fa vedere il ruolo di una corruzione diretta e di pressione insita nel processo. Il potere finanziario saudita ha portato ad una condizione in cui l’Arabia Saudita esercita molto probabilmente maggiore influenza sulla politica estera dei governi occidentali di quella di qualsiasi altra entità straniera. Le paranoiche fantasie liberali sull’influenza del Cremlino nel sabotare i processi della politica interna dei paesi occidentali ci facevano solitamente ridere: ora però sono semplicemente noiose, e le fantasie paranoiche sulla pervasiva influenza israeliana sono quasi altrettanto noiose. Trascuriamo il punto che il regno dell’Arabia Saudita ha probabilmente il più grezzo potere di corruzione di qualsiasi altro stato-nazione.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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