Non solo in Brasile. Anche nella Bolivia di Evo Morales i fuochi stanno distruggendo l’Amazzonia. Sullo sfondo la depenalizzazione per le lobby che appiccano i roghi, la sottomissione delle popolazioni indios e l’incapacità del capitalismo fallocentrico di sentire la sofferenza degli animali che bruciano

L’incendio della foresta Chiquitana e di parte del Pantanal boliviano [rispettivamente, la più grande foresta tropicale secca al mondo e la più grande zona umida al mondo, entrambe al confine con il Brasile – ndt] e della riserva di Uchuquis e Tucavaca [riserva nel sud del paese al confine con il Paraguay – ndt], descrive una violenza collettiva e di gruppo contro la terra perpetrata dai figli dell’oligarchia terriera. Le ferite degli animali bruciati sono le stesse di una donna violentata brutalmente, i lamenti disperati degli animali che muoiono con la bocca spalancata dal dolore mi si confondono in testa con quelli delle donne uccise da persone che hanno bisogno di ucciderle per poterle controllare e possedere come se fossero una proprietà. A Santa Cruz, dove ha luogo l’incendio, il whisky si beve al posto dell’acqua nelle feste dei quartier generali delle comparse [gruppi artistico-musicali che realizzano i carnevali in Spagna e America Latina – ndt] capeggiate dai proprietari feudali distruttori della terra e violatori della vita. Hanno di tutto in un paese in cui nessuno ha nulla; hanno villoni con grandi appezzamenti di terra, piscine, viaggi a Miami, Lamborghini e Ferrari con le quali farsi vedere in giro per la città. Ma non è abbastanza. Potrebbero accendersi i sigari con i dollari, ma non è abbastanza. Lo Stato gli regala la terra, ma non è abbastanza. In un paese in cui la salute non è gratuita, lo Stato sovvenziona il carburante perché possano accumulare ricchezza e non facciano cadere i governi, ma non è abbastanza. In un paese di disuguaglianze come la Bolivia, questi padroni gestiscono le cose con una telefonata, con un capriccio, con uno schiocco di dita. Per quanto onnipotenti si sentono oggi, si sono sentiti in diritto di dare fuoco al Paradiso. Questo è quello che sta accadendo, né più né meno. Per una legge chiamata ironicamente di uso e trattamento “razionale dei roghi”, emanata il 25 aprile 2019, bruciare illegalmente un ettaro di terra comporta una multa di 35$ se sei un latifondista e di 6,6$ se sei un piccolo proprietario. Perché bruciano la foresta e la giungla? Gli obiettivi dietro questi roghi sono: la produzione di biodiesel, che in realtà dovrebbe essere chiamato necrodiesel e l’estensione della frontiera agricola per produrlo; l’esportazione di carne verso la Cina, che sarà nelle mani di uno dei settori più conservatori e padronali del paese (gli allevatori di bestiame) che ha istituito un regime ormai di servitù con i suoi non più lavoratori ma braccianti; l’espansione delle colture di soia transgenica per l’esportazione. I tre grandi poli commerciali del secolo, che hanno già deciso dove spendere quel capitale che non sarà certo in ospedali, scuole o centri di ricerca; verrà speso in fasti e lussi da parte di una piccola élite conservatrice che non reinveste nemmeno per migliorare le proprie condizioni di lavoro. L’idea è di estrarre molto e sperperarlo a Miami. L’idea è di portare i soldi a Panama, l’idea è tentare invano di ricreare a Santa Cruz un modello urbano che imiti la tanto sognata Miami. Nel frattempo, i pompieri intervenuti, in maggior parte volontar*, sono senza maschere, stivali o acqua sufficiente né per loro né per reprimere le fiamme. Si sono dovuti attendere 10 giorni prima che iniziassero a fare qualcosa, aspettando deliberatamente che il fuoco raggiungesse proporzioni irreversibili. Il progetto sul territorio bruciato è la lottizzazione che creerà nuovi milionari padroni della politica della Bolivia. Evo, una maschera popolare Il presidente indigeno si comporta come una maschera, lavora come forma di legittimatore del progetto politico più conservatore e predatorio nella storia della Bolivia. Il mondo denuncia Bolsonaro come il piromane dell’Amazzonia e il genocida dei popoli che la abitano con saggezza da secoli facendo della foresta la loro grande casa. È giusto che venga denunciato anche Evo Morales. Se per destra intendiamo i settori proprietari terrieri e i latifondisti di grandi porzioni di terra secondo logiche di sfruttamento in regime di servitù; se intendiamo per “destra” i settori più conservatori della società aggrappati ai propri privilegi economici; se per destra intendiamo la gestione del potere statale a beneficio di un cerchio privilegiato senza partecipazione popolare; se per destra intendiamo lo smantellamento delle organizzazioni sociali; se per destra intendiamo l’attacco alle popolazioni indigene delle pianure [34 gruppi, rappresentano il 10% della popolazione – ndt] per poterne occupare i territori, allora Evo Morales rappresenta oggi per la Bolivia una delle destre più pericolose. Lo è a partire da un progetto pragmatico basato su accordi di potere parziali che gli garantiscono il controllo dello Stato in cambio di prebende senza limiti per i settori privilegiati della società come l’allevamento e l’agroalimentare. Andinocentrismo e colonizzazione delle popolazioni amazzoniche e della giungla Il modello “indigeno” tra virgolette, in vigore in Bolivia è un modello di egemonia Aymara-Quechua sulle popolazioni che vivono nell’Amazzonia boliviana [sono gli unici due popoli di montagna e rappresentano il 60% della popolazione- ndt]. Tutti questi popoli erano riusciti dopo molti anni a costruire un’organizzazione chiamata CIDOB [Confederazione delle Popolazioni Indigene dell’Oriente Boliviano, fondata nel 1982 che racchiude i 34 popoli delle pianure – ndt]: tale organizzazione è stata smantellata e distrutta, le loro fonti di finanziamento interrotte e i loro capi perseguitati come parte di un progetto di “colonizzazione” delle loro terre e di annientamento sistematico delle loro conoscenze; conoscenze di culture nomadi che in molti casi hanno sviluppato la propria relazione con la foresta partendo dalla profonda comprensione dei suoi aspetti più profondi. Questo è quello che si sta perdendo, anche se non completamente. La distruzione della Cidob risale al 2011, quando quei popoli si opposero alla realizzazione della strada che avrebbe dovuto attraversare un parco nazionale e un territorio indigeno, il Tipnis [Territorio Indigeno e Parco Nazionale Isiboro-Secure, riserva naturale creata nel 1965 e dichiarata territorio indigeno nel 1990 – ndt]. Bocche da cui spuntano rami verdi dalla rabbia Nelle principali città del paese, dall’indignazione sorge un movimento spontaneo composto da persone a cui spuntano pollici verdi che chiedono: •abrogazione del decreto promulgato lo scorso luglio che ha autorizzato il rogo dei pascoli nei dipartimenti di Santa Cruz e Beni; •abrogazione della legge sul necrodiesel; •fine del progetto di esportazione di carne in Cina; •dimissioni del direttore dell’Inra (Istituto Nazionale di Riforma Agraria) perché il nodo principale del problema risiede proprio nella proprietà e gestione della terra; •dimissioni del direttore dell’ABT (Autorità di Controllo di Boschi e Terre); •dimissioni del presidente Evo Morales così che possa dedicarsi liberamente alla sua campagna elettorale mentre noi ripensiamo l’intero paese. Non si tratta solo di spegnere il fuoco, ma impedire che si azzardino a bruciare la foresta di nuovo, per questo la folla grida: né soia, né coca, la foresta non si tocca. L’impostazione fallocentrica del capitalismo patriarcale coloniale non riesce a spegnere l’incendio Guardo il Supertanker pilotato dai militari statunitensi e lo vedo come un grande fallo che scarica acqua ma che non riesce a spegnere l’incendio. Penso che la pioggia ci avrebbe impiegato poche ore. La sua presenza è più che simbolica. Oggi il governo ha contrattato i suoi servizi sprecando soldi che non volevano investire nelle persone, nei villaggi dell’Amazzonia, nella cura della foresta o nella sua comprensione. Oggi vengono tirati fuori non si sa da dove i milioni di dollari che servono e le forze armate statunitensi calano come veri e propri principi azzurri giganti eretti come salvatori. Il Supertanker raggiunge le popolazioni come messaggio fortemente coloniale, bellicoso, fallico e la gente piange di felicità nel vederlo perché è disperata. La gente sorride e saluta quella grande macchina capitalista che da lontano ci porterà il miracolo che avevamo tra le mani: la pioggia. La scena sembra uscita da un film apocalittico di Hollywood, ma senza lieto fine. Causa mondiale vs colonialismo Sento che la sofferenza degli animali bruciati che sotto forma di lamento sordo sale dal fuoco direttamente nei nostri incubi può aprire uno spazio di lotta mondiale. Può aprire alla comprensione dell’assurdità dei confini nazionali e anche degli stessi stati nazione. È la sofferenza degli animali sui nostri petti che può tirarci fuori da una spirale di androcentrismo, per cercare di capire e sentire gli animali. È questa sofferenza che ci può scuotere per farci capire che saccheggiare la terra per riempire le auto di combustibile sia un gesto assurdo. Può farci capire l’inutilità del denaro in mancanza di acqua, aria, speranza o verde. Sono le piaghe degli animali che ci guardano con le ferite aperte che possono spingere la nostra anima a costruire una causa comune chiamata Amazzonia. Potremmo immaginare e costruire una forza mondiale per impedire che il capitalismo coloniale la fagociti, come riserva o con la deforestazione. Anche i discorsi nazionalisti anticoloniali di Bolsonaro, García Linera [vicepresidente della Bolivia – ndt] ed Evo Morales che parlano di sviluppo e di voler rendere l’Amazzonia una macchina da dollari cementificando tutto mostrano adesso la loro assurdità. Dicono che abbiamo il diritto di saccheggiare il nostro paradiso per entrare nella modernità, una vecchia promessa rinfrescata dallo stesso imperialismo come sorta di labirinto politico nel quale ci troviamo da decenni. Oggi possiamo uscire da questo labirinto per dire rabbiosamente che la terra e le donne non sono territori di conquista.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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