Arundhati Roy e Zafar Khan, capo dell Ufficio Diplomatico del JKLF


Francesco Cecchini


Il giorno in cui l’esercito indiano entrò nel Kashmir il 27 ottobre 1947, il primo ministro indiano Jawaharlal Nehru inviò un telegramma al primo ministro pakistano Liaquat Ali Khan. In questo telegramma, Nehru scrsse che il futuro del Kashmir “deve essere deciso secondo i desideri della gente”. Il desiderio dei kashmiri era allora ed è ora l’indipendenza del Kashmir. Poco tempo fa Zafar Khan, capo dell Ufficio Diplomatico del JKLF ha inviato una lettera aperta al segretario generale dell’ONU António Guterres, per richiedere un referendum perché i kashmiri possano esprimere la volontà che la loro patria, il Kashmir, sia indipendente.
ArundhatiRoy, scrittrice, saggista e attivista indiana, è stata spesso al centro dellattenzione dei media indiani e internazionali, oltre che per le sue opere letterarie, Il Dio delle Piccole Cose, Il Ministero della Felicità, dove racconta di persone che proveniendo dal Kashmir hanno attraversato un feroce confine, e la recente raccolta di saggi Il Mio Cuore Sedizioso, per le aperte critiche nei confronti dello Stato indiano per l’occupazione militare del Kashmir. Un esempio, Il 24 ottobre 2010 Arundhati Roy è intervenuta a Srinagar ad un convegno dal titolo Quale Kashmir — Libertà o Schiavitù?, organizzata dal JKCCS (Jammu and Kashmir Coalition of Civil Society). dove ha affermato fra laltro: IL KASHMIR NON E MAI STATO PARTE DELL INDIA. E LA STORIA A DIRLO. Nonostante le molte reazioni di condanna Arundhati Roy continua il suo impegno militante per un Kashmir indipendente.
Nella sua lunga denuncia affidata al New York Times, la scrittrice e attivista indiana Arundhati Roy ha accusato il premier Narendra Modi di aver trasformato il Kashmir in un gigantesco campo di prigionia.
La denuncia à stata ripresa tradotta in spagnolo da Viento Sur
https://vientosur.info/spip.php?article15084
e tradotta in francese da Alter Quebec
http://alter.quebec/cachemire-silence-assourdissant/

La traduzione in italiano è la seguente:

L’India festeggia il suo 73° anno di indipendenza dal dominio britannico e bambini vestiti di stracci si fanno largo nel traffico di Delhi per vendere bandiere e souvenir con la scritta: “Mera Bharat Mahan”. “La mia India è immensa”. Moralmente, non è facie sentirsi ora immensi , perché sembra proprio che il nostro governo abbia perso ogni ritegno. Ha violato lo Statuto speciale con cui l’ex Stato principesco di Jammu e Kashmir aderì all’India ne147. A mezzanotte del 4 agosto, ha trasformato l’intero Kashmir in un gigantesco campo di prigionia: 7 milioni di kashmiri sono stati costretti a barricarsi in casa, le connessioni internet sono state interrotte e i telefoni isolati. Il 5 agosto, il ministro dell’Interno ha proposto in Parlamento di revocare l’articolo 370 della Costituzione, che stabilisce gli obblighi derivanti dallo Statuto speciale. La sera dopo, la Legge di Riorganizzazione di Jammu e Kashmir è stata approvata. La legge priva lo Stato di Jammu e Kashmir del suo statuto speciale. Lo priva anche della sua qualità di Stato e lo divide in due territori dell’Unione. Il primo, Jammu e Kashmir, sarà amministrato direttamente da Delhi, anche se continuerà ad avere un’assemblea legislativa locale. Il secondo, il Ladakh, sarà amministrato da Delhi e non avrà un’assemblea legislativa. I cittadini indiani potranno acquistare dei terreni e stabilirsi nella loro nuova proprietà. I nuovi territori, sostiene il governo, sono aperti al mercato. Che cosa questo possa significare per la fragile ecologia himalayana del Ladakh e del Kashmir, terre dei grandi ghiacciai, dei laghi d’alta quota e dei cinque grandi fiumi, non è preso in considerazione. Di fatto, aperti al mercato può significare anche insediamenti in stile israeliano e trasferimenti di popolazione, come è accaduto in Tibet. Per i kashmiri questa è un’antico terrore: il loro incubo ricorrente di essere spazzati via da un’ondata di indiani che vogliono una casetta nella loro valle silvestre potrebbe facilmente avverarsi. In mezzo a queste volgari celebrazioni, tuttavia, ciò che risuona più forte è il silenzio mortale delle strade pattugliate e bloccate del Kashmir e dei suoi abitanti intrappolati e umiliati, circondati dal filo spinato, spiati dai droni, costretti a un totale blackout delle comunicazioni. Che in quest’era dell’informazione un governo possa con tanta facilità isolare un’intera popolazione per giorni e giorni ci fa comprendere quanto sia grave il momento. Il Kashmir, dicono spesso, è il lavoro incompiuto della Partition, Partizione. Se la Partizione, con l’orribile violenza che provocò, è una profonda ferita aperta nella memoria, la violenza di quei tempi, e degli anni successivi, sia in India che in Pakistan, è dovuta tanto all’assimilazione che alla Partizione. In India, il progetto di assimilazione, definito costruzione della nazione, ha significato che tutti gli anni dal 1947, l’esercito indiano è stato schierato all’interno dei confini dell’India contro il proprio popolo. In Kashmir, Mizoram, Nagaland, Manipur, Hyderabad e Assam. Il processo di assimilazione è costato la vita a decine di migliaia di persone. Quello che si sta realizzando oggi, su entrambi i lati del confine dell’ex Stato di Jammu e Kashmir, è l’incompiuto processo dell’assimilazione. Oggi il Kashmir è una delle zone più militarizzate del mondo, se non la più militarizzata in assoluto. Più di mezzo milione di soldati sono stati schierati contro ciò che lo stesso esercito ora riconosce essere solo un gruppetto di terroristi. Ciò che l’India ha fatto in Kashmir negli ultimi trent’anni è intollerabile. Si crede che nel conflitto siano state uccise circa 70.000 persone, tra civili, militanti e militari. Migliaia di persone sono scomparse e altre decine di migliaia sono passate nelle sale di tortura disseminate nella valle come una rete di piccole Abu Ghraib. Negli ultimi anni, centinaia di adolescenti sono stati accecati dall’uso di fucili a palle, la nuova arma preferita dalle forze di sicurezza. La maggior parte dei militanti che oggi opera nella valle sono giovani kashmiri, armati e addestrati sul posto. Fanno quello che fanno sapendo che dal momento in cui prendono in mano un fucile è improbabile che la loro durata di vita sia superiore a sei mesi. Ogni volta che un così detto terrorista viene ucciso, i kashmiri si presentano a decine di migliaia per seppellire un giovane che venerano come uno shahid, un martire. Nel primo mandato di Narendra Modi come premier, la durezza del suo approccio ha esacerbato la violenza in Kashmir. Ma ora, a due mesi dal secondo mandato, il governo Modi ha giocato la carta più pericolosa di tutte. Ha gettato un fiammifero acceso in una polveriera. Se questo non bastasse, il modo vile e disonesto in cui l’ha fatto è vergognoso. Nell’ultima settimana di luglio, con vari pretesti, sono stati trasferiti in Kashmir altri 45.000 militari. Il pretesto più grande è stato che c’era una minaccia “terrorista” pachistana per l’Amarnath Yatra, il pellegrinaggio annuale durante il quale centinaia di migliaia di devoti indù si recano in Kashmir. Il E di agosto, alcune reti televisive indiane hanno annunciato di aver trovato lungo il percorso del pellegrinaggio una mina con il marchio dell’esercito pachistano. I12 agosto, il governo ha chiesto a tutti i pellegrini di lasciare la valle. Sabato 3 agosto i militari avevano occupato l’intera valle. A mezzanotte di domenica, i kashmiri erano costretti a chiudersi in casa e tutte le reti di comunicazione avevano smesso di funzionare. L’8 agosto, quattro giorni dopo l’inizio del coprifuoco, Narendra Modi è apparso in televisione. Sembrava un’altra persona. Era scomparsa l’abituale aggressività e il tono irritante e accusatorio. Parlava, invece, con la tenerezza di una giovane madre. La voce gli tremava e gli occhi gli brillavano di lacrime mentre elencava gli innumerevoli benefici che sarebbero piovuti sul popolo dell’ex Stato di Jammu e Kashmir, adesso governato direttamente da Nuova Delhi. Ha evocato le meraviglie della modernità indiana come se stesse educando dei contadini dei tempi feudali usciti da una macchina del tempo. Ha parlato di come i film di Bollywood sarebbero stati nuovamente girati nella loro valle verdeggiante. Non ha spiegato però perché ai kashmiri fosse imposto il coprifuoco e il blocco delle comunicazioni. Non ha spiegato perché questa decisione sia stata presa senza consultarli. Non ha detto come un popolo che vive sotto un’occupazione militare possa godere dei grandi doni della democrazia indiana. Quando tutta questa farsa finirà, perché deve finire, la violenza si riverserà inevitabilmente dal Kashmir in India. Sarà usata per infiammare l’ostilità contro i musulmani, che sono già demonizzati, ghettizzati, spinti nei gradini inferiori della scala economica e, con terrificante regolarità, linciati. Lo Stato ne approfitterà per stringere il cerchio anche su altri – attivisti, avvocati, artisti, studenti, intellettuali, giornalisti – che hanno protestato. Il pericolo arriverà da molte direzioni. L’organizzazione più potente dell’India, l’estrema destra nazionalista indù Rashtriya Swayamsevak Sangh, o R.S.S.S., con più di 600.000 membri tra cui Modi e molti dei suoi ministri, ha una milizia “volontaria” addestrata, ispirata alle Camicie Nere di Mussolini. Ogni giorno che passa, la R.S.S.S. avanza in ogni istituzione dello Stato: ha già raggiunto un punto in cui più o meno è lo Stato stesso. Intellettuali e accademici sono una delle loro maggiori preoccupazioni. A maggio, la mattina dopo che il partito Bharatiya Janata aveva vinto le elezioni generali, Ram Madhav, segretario generale del partito ed ex portavoce del R.S.S.S., ha scritto che gli “avanzi” dei “cartelli pseudo-secolar/liberali che avevano un’influenza e una presa sproporzionate sull’establishment intellettuale e politico del Paese… devono essere eliminati dal panorama accademico, culturale e intellettuale del Paese”. Il 1° di agosto, in vista di questa eliminazione, la Legge sulla prevenzione degli atti illegali è stata modificata. Una correzione che consente al governo di definire qualsiasi individuo come terrorista senza seguire la procedura legale di una denuncia, di un atto d’accusa, di un processo e di una condanna. Mentre il mondo sta a guardare, prende forma e consistenza l’architettura del fascismo indiano
Arundhati Roy, 15 agosto 2019

Il mio cuore sedizioso di Arundhati Roy

Di Francesco Cecchini

Nato a Roma . Compie studi classici, possiede un diploma tecnico. Frequenta sociologia a Trento ed Urbanistica a Treviso. Non si laurea perché impegnato in militanza politica, prima nel Manifesto e poi in Lotta Continua, fino al suo scioglimento. Nel 1978 abbandona la militanza attva e decide di lavorare e vivere all’estero, ma non cambia le idee. Dal 2012 scrive. La sua esperienza di aver lavorato e vissuto in molti paesi e città del mondo, Aleppo, Baghdad, Lagos, Buenos Aires, Boston, Algeri, Santiago del Cile, Tangeri e Parigi è alla base di un progetto di scrittura. Una trilogia di romanzi ambientati Bombay, Algeri e Lagos. L’ oggetto della trilogia è la violenza, il crimine e la difficoltà di vivere nelle metropoli. Ha pubblicato con Nuova Ipsa il suo primo romanzo, Rosso Bombay. Ha scritto anche una raccolta di racconti, Vivere Altrove, pubblicata da Ventura Edizioni Traduce dalle lingue, spagnolo, francese, inglese e brasiliano che conosce come esercizio di scrittura. Collabora con Ancora Fischia IL Vento. Vive nel Nord Est.

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