Quali sono i meccanismi economico-militari che caratterizzano l’imperialismo contemporaneo, cioè l’imperialismo per come si è sviluppato dal secondo dopoguerra a oggi?

La loro genesi è ben descritta da Paul Baran e Paul Sweezy, due eminenti marxisti statunitensi, nella loro opera “Il capitale monopolistico” del 1966. Da allora, l’unica differenza è che i monopoli dominanti non sono più quelli industriali bensì quelli finanziarizzati – i “mercati” in linguaggio corrente, con un avvilupparsi sempre più stretto tra industria e finanza in cui l’elemento finanziario tende a prendere saldamente il controllo (1) – sorti a partire dagli anni ’80 sulla base delle multinazionali oggetto di studio dei due autori.

Tuttavia, la  politica dei gruppi monopolistici resta sostanzialmente la stessa. Vi proponiamo dunque questo passaggio del libro in cui, attraverso l’esempio di Cuba – ancor valido vista l’attualità delle recenti misure USA atte a rafforzare l’embargo e lo strangolamento dell’isola – gli autori illustrano il funzionamento e le ragioni profonde e strutturali di questo sistema mondiale di sfruttamento che affligge le classi lavoratrici e le nazioni oppresse del pianeta.

“la storia recente della Standard Oil of New Jersey ci offr[e] un esempio classico del perché le società per azioni multinazionali sono profondamente ostili al diffondersi del socialismo. Prima della rivoluzione cubana, la Standard era impegnata a Cuba in diverse attività. Era proprietaria di raffinerie nell’isola e di un’ampia rete di distribuzione […]. Per di più, le affiliate cubane della Standard acquistavano il greggio dalla Creole Petroleum, affiliata venezuelana della Standard, a prezzi che il cartello internazionale del petrolio manteneva elevati. La società pertanto mieteva profitti in due paesi diversi e in tre attività diverse: vendita del greggio, raffinazione del greggio e vendita del prodotto finito. Per effetto della rivoluzione cubana le proprietà della società a Cuba furono nazionalizzate senza risarcimento e la Creole perdette il mercato cubano. Un patrimonio di oltre 60 milioni di dollari e tutte e tre le fonti di profitto corrente furono perdute con un colpo solo e senza minimamente comportare esportazioni o importazioni con gli Stati Uniti.

Si potrebbe sostenere che se la Standard e il governo degli Stati Uniti avessero seguito politiche diverse nei confronti di Cuba, il regime rivoluzionario sarebbe stato lieto di continuare ad acquistare il greggio dal Venezuela che, dopo tutto, costituisce la fonte di rifornimento più vicina e più razionale. Questo è senza dubbio vero, ma con una importante precisazione. Il regime rivoluzionario sarebbe stato lieto di continuare a comprare petrolio dal Venezuela, ma non avrebbe gradito continuare a pagare i prezzi e accettare le condizioni di pagamento imposte dalla Standard Oil. E poiché poteva rivolgersi all’Unione Sovietica come fonte alternativa di rifornimento, esso non era più costretto a sottostare alle condizioni del cartello. Pertanto, per rimanere nel mercato cubano, la Standard avrebbe come minimo dovuto ridurre i prezzi e offrire condizioni migliori. Questo non soltanto avrebbe comportato minori profitti nelle vendite a Cuba, ma avrebbe minacciato l’intera struttura dei prezzi del cartello. La Standard e Washington decisero invece di combattere la rivoluzione cubana.

Che la posta in gioco nel conflitto tra gli Stati Uniti e Cuba non sia il commercio tra i due paesi è confermato dalle relazioni di Cuba con altri paesi capitalistici. Molto tempo dopo la socializzazione dell’economia cubana, vediamo il governo dell’Avana promuovere vigorosamente il commercio con la Gran Bretagna, la Francia, la Spagna, il Canada e il Giappone: in breve con tutti i paesi disposti a commerciare con Cuba e in condizioni di farlo. È vero, naturalmente, che le possibilità cubane di esportare e importare erano state seriamente ridotte dalla disorganizzazione e dalle altre difficoltà dei primi anni della transizione al socialismo, ma sembra che non vi sia ragione di dubitare dell’affermazione di Cuba secondo cui entro pochi anni l’isola sarà un contraente molto migliore che all’epoca del vecchio regime neocolonialista. Né vi è ragione di dubitare del fatto che gli Stati Uniti sarebbero in grado di far la parte del leone nel commercio cubano se si togliesse il blocco e si ristabilissero normali relazioni tra i due paesi.

Ma non è questo che interessa alle società per azioni multinazionali giganti che dominano la politica americana. Esse vogliono il controllo monopolistico delle fonti estere di rifornimento e dei mercati esteri in modo da essere in grado di comprare e vendere a condizioni particolarmente favorevoli, di passare ordinazioni da una società affiliata all’altra, di favorire questo o quel paese che ha le politiche più vantaggiose in materia di imposte, di lavoro e di altro: in una parola, essi vogliono fare affari dove vogliono e come vogliono. E per questo essi non hanno bisogno di soci, ma di «alleati» e di clienti disposti ad adeguare le loro leggi e le loro politiche alle esigenze delle grandi società americane.

Su questo sfondo, è possibile vedere che il delitto di Cuba fu quello di affermare, con i fatti e con le parole, il suo diritto sovrano di disporre delle proprie risorse nell’interesse del proprio popolo. Questo comportò la riduzione e, nella lotta che ne seguì, anche l’abrogazione dei diritti e dei privilegi che le società per azioni multinazionali giganti avevano precedentemente goduto nel suo territorio. Per questo e non per la perdita del commercio e tanto meno per timori o pregiudizi irrazionali le società e il loro governo a Washington reagirono con tanta violenza alla rivoluzione cubana.

Si potrebbe forse pensare che essendo Cuba un piccolo paese, la violenza della reazione sia stata assolutamente sproporzionata al danno sofferto. Ma questo significherebbe non cogliere il punto fondamentale. L’importanza di Cuba sta proprio nel fatto di essere cosi piccola e cosi vicina agli Stati Uniti. Se Cuba può abbandonare impunemente il «mondo libero» e unirsi al campo socialista, allora qualunque paese può fare lo stesso. E se Cuba progredisce nella nuova situazione, tutti gli altri paesi sottosviluppati e sfruttati del mondo saranno tentati di seguirne l’esempio. La posta a Cuba, quindi, non è soltanto lo sfruttamento di un piccolo paese, ma la stessa esistenza del «mondo libero», vale a dire dell’intero sistema di sfruttamento.

Questo è il fatto che ha dettato la politica cubana degli Stati Uniti. Tale politica ha mirato a danneggiare e paralizzare l’economia cubana in ogni modo possibile, con un triplice obiettivo. Primo, nella speranza che il popolo cubano presto o tardi si stanchi del suo nuovo assetto rivoluzionario, ponendo cosi le basi per il successo di una controrivoluzione. Secondo, allo scopo di insegnare ai popoli dei paesi sottosviluppati che la rivoluzione non rende. Terzo, allo scopo di gettare sul campo socialista, e specialmente sull’Unione Sovietica, che ne è il paese piu sviluppato, tutto il peso necessario per sostenere l’economia cubana, in modo da indurre gli altri paesi socialisti a impiegare la loro influenza per impedire nuove rivoluzioni che potrebbero gettare ulteriori oneri sulle loro economie già sovraccariche.

6.
Naturalmente questo non è l’unico modo in cui il «mondo libero» si difende. Gli Stati Uniti sono riusciti a comprendere la natura della rivoluzione che rovesciò il regime di Batista a Cuba solo quando era troppo tardi per impedire ai rivoluzionari di consolidare il loro potere. Ora stanno prendendo ogni precauzione per evitare di ripetere ancora lo stesso errore. Tutti i rivoluzionari sono automaticamente sospetti: nessun regime è troppo reazionario per non meritare l’appoggio incondizionato degli Stati Uniti.

Tale appoggio assume in parte la forma del cosiddetto aiuto economico (in realtà si tratta di rifornimenti per corrompere le oligarchie locali incaricate di assicurare la loro fedeltà a Washington più che agli interessi dei propri paesi) e in parte la forma dell’aiuto militare, che è prevalentemente di due specie.

In primo luogo, vi è la presenza diretta delle forze armate degli Stati Uniti sul territorio dello stato satellite (client): stazionamento di truppe in basi controllate dagli Stati Uniti (come abbiamo già visto vi sono 275 basi integrate importanti e 1400 basi normali occupate pronte a essere occupate da truppe americane); […] [oggi gli USA contano almeno 700 basi integrate sparse per 75 paesi e una presenza militare nel 75% delle nazioni del mondo, 149 paesi n.d.r] (2)

In secondo luogo, c’è il rifornimento di materiali e l’appoggio finanziario per le forze armate degli stati vassalli. Anche se i numerosissimi patti di assistenza militare che gli Stati Uniti hanno firmato con i paesi sottosviluppati in tutto il mondo sono apparentemente destinati a fronteggiare la «minaccia» di aggressione da parte dell’Unione Sovietica e della Cina, nessuno stratega militare serio crede che questo sia lo scopo reale. Tale minaccia, se effettivamente esistesse, potrebbe essere respinta solo dagli Stati Uniti, poiché il tentativo di coordinare la strategia militare con un gran numero di alleati deboli sarebbe più una fonte di debolezza che di forza. Il vero scopo di questo aiuto militare è chiaramente enunciato dal Lieu Wen nel suo studio fondamentale sulla funzione dei militari nell’America Latina:

Quelle politiche [militari]… non si propongono di fronteggiare la minaccia militare del comunismo, ma piuttosto di guadagnarsi l’amicizia dell’America Latina, ottenerne l’appoggio e la cooperazione alle Nazioni Unite e nell’organizzazione degli stati americani. L’alleanza di Rio, i patti di mutua assistenza, gli aiuti rimborsabili, l’opera della Commissione di difesa interamericana e delle missioni militari sono tutte cose che non hanno grande importanza militare. Esse si propongono soprattutto di avvicinare maggiormente agli Stati Uniti il corpo degli ufficiali latino-americani che esercitano grande influenza sulla scena politica della maggior parte di quelle repubbliche, nella speranza che essi respingano l’influenza sovietica, diano il loro appoggio agli Stati Uniti, conservino la stabilità politica, assicurino sempre l’accesso alle materie prime strategiche e concedano l’uso delle basi militari

Per dirla più schietta, l’aiuto militare degli Stati Uniti ai paesi sottosviluppati si propone di mantenere tali paesi nell’impero americano se essi ci sono già e di farceli entrare se ancora non ne fanno parte; e in ogni caso di assicurarsi che non vi siano ulteriori defezioni dal «mondo libero». Le conseguenze per i paesi che ricevono tale aiuto sono tragiche. «La nostra azione – afferma lo statista colombiano Eduardo Santos – sta creando eserciti che non hanno alcun peso in campo internazionale, ma che sono cappe di piombo per la vita interna di ciascun paese. Ogni paese è occupato dal proprio esercito». La stessa tesi è enunciata e fortemente sottolineata in un notevole studio sui rapporti tra Stati Uniti e Pakistan pubblicato a Londra da un gruppo di studiosi pakistani:

A lunga scadenza, l’aspetto peggiore dell’aiuto militare sta nel cambiamento completo che esso produce nell’equilibrio delle forze sociali e politiche a favore della conservazione e degli interessi costituiti. I semi malefici dell’aiuto militare producono uno spaventoso raccolto di militari radicati negli strati più conservatori della nostra società, che s’impancano a giudici del nostro popolo. Si tratta di una forza schiacciante senza antagonisti capaci di controbilanciarla.

Questa proliferazione su scala mondiale di piccoli apparati militari fedeli a Washington non riduce in alcun modo il bisogno di un grande apparato militare negli stessi Stati Uniti. Mentre sale la marea della protesta rivoluzionaria nei paesi sfruttati del «mondo libero», solo l’aumento diretto e massiccio dell’intervento delle forze armate americane può ancora tenere insieme per qualche tempo il vecchio ordine di cose.”


(1) Sulla evoluzione del capitalismo monopolistico in capitalismo monopolistico finanziarizzato, e quindi sulla dominazione attuale del capitale finanziario (“i mercati finanziari”), leggere Finanza, economia e politica articolo di Tony Norfield tradotto da Giuseppe Sini su  Traduzioni marxiste.

(2) https://www.remocontro.it/2017/12/27/militari-statunitensi-in-149-paesi-il-75-del-mondo/

Tratto da Il capitale monopolistico. Baran, Paul A. – Sweezy, Paul M., 1978, Einaudi pp. 167-173

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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