14 dicembre. ridaremo cattivi esempi, ma adesso asteniamoci dal dare buoni consigli

Chiamatemi Ismaele. Sono sopravvissuto in piazza S. Giovanni a un banco di sardine bianche (con pochi esemplari rossi e neri) e ora ripercorro tutta la storia. Ero scampato a uno squallido susseguirsi di blog estremizzanti che spiegavano alle Sardine come pensare, vestirsi, scendere in piazza, portando a riscontro una bella serie di sconfitte, rifondazioni, scissioni e campagne elettorali dai magri risultati.

Sono restato a galla a S. Giovanni, favorito dal fatto che (come la maggior parte del pubblico) non sono riuscito a sentire una parola dal palco, in assenza di amplificazione. Il pubblico, un buon 60.000 persone, cosa di tutto rispetto, se ne stava tranquillo, concomitante un’età media di 35-40 anni, più bassa nelle prime fila, che infatti sentivano parole e musica e a volte saltavano. Ma solo le prime fila. Insomma, non c’era la vivacità dei ragazzi dei FFF e il colore dei cortei di NonUnaDiMeno o dei Pride. Non c’erano neppure i cagnoni dei centri sociali, ma cagnetti di piccola taglia in braccio ai padroni. Restava il fatto di una grossa manifestazione in una piazza recuperata a una tradizione diciamo di sinistra e di conclamata alternativa all’incubo fascio-leghista delle ultime settimane. Il 14 dicembre 2010 a piazza del Popolo era ben altra cosa, ma sono passati nove anni e il problema è come portare in piazza la gente oggi: intanto portarcela, poi i distinguo. Sperando in futuro di tornare a dare cattivi esempi e astenendoci oggi dai buoni consigli.

Quindi non mi sono pentito di esserci andato. Ci mancherebbe.

Le perplessità mi sono venute il giorno dopo, ascoltando finalmente quanto era stato detto sul palco e leggendo i resoconti sdolcinati sui giornali mainstream e (purtroppo) sul “manifesto”. La gestione del palco, soprattutto da parte di Mattia Santori (è solo uno degli organizzatori, ma lo hanno scelto a simbolo e non solo a portavoce) era piuttosto irritante per l’accoppiamento di un’apparente sprovvedutezza e di una sostanziale furbizia, per il contenuto discutibile di alcune proposte e l’ambiguità di quella conclusiva sui decreti sicurezza (ripensarli o abrogarli? O prima l’una e poi l’altra, uditi gli umori della piazza?). Per fortuna, nella riunione ristretta del giorno dopo è stata stilata una formulazione più limpida: «Chiediamo alla politica di rivedere il concetto di sicurezza e per questo di abrogare i decreti sicurezza attualmente vigenti». Ok, il problema adesso è delle forze di maggioranza, che notoriamente sul tema latitano.

Veniamo all’eco mediatico, di cui ovviamente le Sardine non hanno responsabilità diretta, Santori forse un poco, vista la sua sovraesposizione televisiva, 16 talk show in 28 giorni.

Intendiamoci, mica la stampa ha spacciato fake news, qualche esagerazione sui numeri sì, ma quello è un vizio che abbiamo tutti. Però ondate di melassa, che “Repubblica” ha sapientemente mescolato a strali velenosi contro Corbyn, eletto a testimonial della sinistra ideologica, visto che in Italia non si saprebbe proprio con chi prendersela. E quindi fioriscono, sotto la barocca penna di Francesco Merlo, folle senza capi, piazze del buon senso e del buon cuore, vecchine orfane, tutti esultanti «dopo la morte giovedì scorso della sinistra radicale in Inghilterra». Folle che, per fortuna, non portano bandiere arcobaleno, ma in cui si sono tristemente infiltrati «gli ingegneri delle rifondazioni marxiste, i cani sciolti, i Che Guevara che manifestano da tutta la vita». Paolo Di Paolo invece la butta sul poetico e si bea del fatto che nessuno era in grado di percepire una parola, «perché qui conta esserci molto più che parlare» e «la piazza è liquida come il secolo nuovo, è mobile. È post-novecentesca». Insomma, grazie di esistere e taci – come ormai da parecchi anni non si usa più neppure nelle dichiarazioni amorose da macho acculturato.

Accanto all’entusiasmo della gazzetta Fca e (ri-purtroppo) all’infelice e poco ironico «Sarde subito» del “manifesto”, una pioggia probabilmente poco gradita di endorsement, dal “Corriere” al premier Giuseppi, da Di Maio a Virginia Raggi e all’invasivo Franceschini – un clima perturbante di consenso da parte di singoli e correnti che mirano solamente a farsene schermo e a distrarre l’opinione pubblica da altro.

Forse però la riflessione dovrebbe andare un po’ oltre al folklore e cogliere dei sintomi che definiscono una fase – magari una fase temporanea. Nelle stesse ore di questo eterogeneo quanto sospetto entusiasmo per le Sardine si moltiplicano i segnali di ben più smaccata strumentalità. Salvini, fallita la spallata parlamentare sul Mes e perso il monopolio delle piazze, invoca un comitato di salvezza nazionale (con premier Draghi!) e chiama all’amore e all’abbraccio di tutti. L’autocandidato sindaco di Roma, Morassut, in un interminabile blog per Huffington Post, evoca lo scioglimento del Pd e la costruzione di una cosa che non sia né solida come un partito né liquida alla Bauman, ma «un collagene», insomma avete presente quando il polpo cuoce male?

Tutti a sopire il conflitto, a dissolvere le contraddizioni, a combattere l’odio e le divisioni. Strano, no?

È stato giustamente scritto da Laura Bazzicalupo che le folle di sardine che si radunano nelle piazze italiane «non sono la democrazia… ma sono un indizio, una traccia che cortocircuita la complessità e durezza del reale», una festa dello stare insieme contro il clima di odio. Gestisce «lo stesso legame emotivo sul quale fa leva l’aggressività nazionalista contro l’ansia della globalizzazione, ma in chiave distesa, tranquilla», è dunque una quietitudine di prossimità che insieme e paradossalmente è un prodotto e un antidoto della crisi neoliberale della democrazia rappresentativa, sballottata fra proceduralismo e populismo. Il “noi” (che è il rimosso del primo e la deformazione ipertrofica del secondo) ritorna anche nella festa comunitaria, magari nella formula un po’ goffa del «favorire l’interazione fisica fra i corpi» (comunicato delle Sardine del 15.12), che cerca di “dare corpo” e soggettivazione a un agire comunicativo di stampo habermasiano ma, appunto, non va oltre l’indizio, anzi rischia di restare nella cerchia del consumo informato, al di qua del reale calarsi nelle contraddizioni della crisi e quindi di farsi carico dell’antagonismo.

La razionalità della governance neoliberale consente e richiede forme ambivalenti di partecipazione a basso tasso di conflittualità: il punto è, dunque, che solo forzandone la soglia è possibile scardinare quel meccanismo, pur partendo dal suo interno. In altri termini: il movimentismo soft si trova, prima o poi a un bivio cui perviene dall’interno (non dall’esterno) del sistema, ma a quel bivio deve scegliere. Per cui all’inizio questi movimenti non ripercorrono la via lineare fra Seattle e il 2010 ma si presentano in forma spuria e frattale – il che non vuol dire necessariamente educata, possono essere Sardine o Gilets Jaunes, ma sempre di movimenti moltitudinari irriducibili a schemi novecenteschi e in parte perfino recenti si tratta. Poi però decide l’evoluzione e la capacità di contaminarsi con istanze eterogenee: da quel casino destra-sinistra che erano all’inizio i GJ hanno saputo articolarsi con sindacati un poco più vivaci dei nostri, con le manifestazioni femministe e ambientaliste, sono un fenomeno sovversivo in sviluppo. Per le Sardine vige ancora l’ambivalenza, necessaria e temporanea, certo non orientabile con categorie e nostalgie di altre lotte, se non nella misura in cui una buona memoria storica non fa mai male, se non altro per capire le differenze radicali fra presente e passato.

Perplessi, ma daje!

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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