Il giochetto è in fondo molto semplice e, come ogni cosa elementare, per questo è a volte di difficile individuazione: la semplicità di cui è formato si sostituisce alla facilità con cui può essere scoperto. Un orpello leggero copre l’inconsistenza di cui è fatto il balocco con cui i neofascisti moderni si divertono, provando a fare della storia un mero “punto di vista“.

Il metodo di ricerca storico, però, proprio perché prescinde dai punti di vista, esige che la ricostruzione dei fatti sia il fondamentale terreno di costruzione della memoria alla quale si può e si deve fare riferimento per comprendere, seppur soggettivamente, il presente in cui viviamo.

I neofascisti moderni pensano di poter astrarre, ad esempio, dai corsi e ricorsi del periodo bellico del Novecento tante singole vicende, tante morti che dimostrerebbero la brutalità dei partigiani, per arrivare a costruire una narrazione in cui si capovolgono i princìpi su cui si fonda la Repubblica italiana, quindi la sua stessa Costituzione, quindi settanta e più anni di vita dopo la caduta del fascismo e del nazionalsocialismo in Europa.

I neofascisti moderni, dunque, prendono un punto di vista (assumono quindi un metodo dialettico fondato sulla parzialità) e ne fanno fondamento storico-etico per riscrivere i fatti stessi, perché decontestualizzandoli creano i presupposti per “revisionare” la storia che, lo si voglia o meno, ci parla di una immensa tragedia chiamata “Seconda guerra mondiale” che ha causato quasi sessanta milioni di morti tra militari e civili e che è il prodotto non di sé stessa: non è un fenomeno attribuibile ad una ricorrenza di eventi ineluttabili, ma il prodotto della volontà umana, di precise condizioni in cui si sono formate due poteri che hanno tradotto il liberalismo italiano e tedesco in spietate dittature, dove non si muoveva foglia se non per ordine del complesso apparato ispirato dalle figure di Mussolini e di Hitler.

I neofascisti moderni danno dunque vita ad una contro-storia, ad una visione dei fatti secondo cui il “sangue dei vinti” sarebbe nobile, eroico, da ricordare con celebrazioni patriottiche e da esaltare come esempio di eroismo davanti invece alla crudeltà della lotta resistenziale e partigiana.

Una volta fatta questa operazione, assunto il punto di vista fascista sulla storia, il resto viene di conseguenza: il revisionismo e il negazionismo non sono riconducibili allo storicismo, all’indagine meticolosa dei fatti. Essi sono l’ultimo punto di approdo di un lavoro di presunta dimostrazione di una condanna “pregiudiziale” e “aprioristica” di accadimenti che, poiché hanno giustamente prevalso i valori della Resistenza e dell’antifascismo, quindi della democrazia costituzionale, sarebbero stati relegati nella bella evidenza della damnatio memoriae di un periodo della storia italiana ed europea fatta di soprusi, angherie, sopraffazioni, violenze e discriminazioni erette a consuetudine statale, fatte addirittura legge nel 1938, introducendo nel diritto italiano il razzismo, l’odio, il disprezzo e la ghettizzazione di centinaia di migliaia di italiani di fede ebraica.

Quella condanna di un mondo sconfitto il 25 aprile 1945 risuonava fino a poco tempo fa come l’unica narrazione possibile della nostra storia recente. Fino a che non si è pensato che si dovesse “pacificare” il Paese, come se non fosse bastata già l’amnistia togliattiana a mettere mano alla ricomposizione di un popolo diviso, pronto il 24 luglio ad inneggiare a Mussolini e il giorno seguente a buttarne giù le statue (distinzione non di poco conto con il comportamento tenuto dal popolo tedesco e dovuto al ferreo terrore dell’apparato poliziesco della Gestapo, alla differente struttura del regime nazista rispetto a quello fascista, sgretolatosi sotto il peso di una guerra affrontata con sufficienza e con insufficienti mezzi e inadeguata preparazione).

Ma se l’amnistia di Togliatti portava su di sé la grave responsabilità di ristabilire un equilibrio tra popolo e istituzioni e tra popolo e popolo stesso, tra apparati dello Stato e altri apparati stessi dello Stato medesimo, la pacificazione della memoria sopraggiunta con la fine della Guerra fredda, con lo smantellamento della contrapposizione tra i grandi blocchi sociali e politico-sindacali (DC e PCI), aveva invece come scopo quello di archiviare il passato, di “metterci una pietra sopra“, di rendere equipollente tanto la lotta resistenziale quanto quella dei repubblichini dell’ultimo fascismo di Salò.

Si è detto che compito di una democrazia forte è saper affrontare il confronto con la storia su cui è nata: ma la nostra non è mai stata una democrazia veramente forte e nemmeno veramente tale. Ha i tratti dello Stato di diritto tenuto in equilibrio dalla divisione dei poteri stabiliti dalla Costituzione. In settanta anni la Repubblica ha affrontato tante ombre e penombre dentro e fuori le sue istituzioni e solo grazie alle forze antifasciste non è precipitata in un autoritarismo che era sempre sulla soglia, pronto a fare capolino mediante riorganizzazioni degli apparati fascisti riorganizzatisi sotto sigle politiche presenti tanto in Parlamento quanto fuori dai palazzi legislativi.

Le “trame nere“, i tentativi di colpo di Stato, la storia mai risolta del conflitto tra sostegno americano alla rete eversiva di “Gladio” e il “Patto di Varsavia” dall’altro, cui peraltro il PCI del dopo 1953 non guardava più con lo stesso interesse degli anni post-bellici, hanno trascinato con sé una divisione nel popolo italiano che, tuttavia, era limitata a settori estremistici che osavano mostrarsi apertamente in sfida sprezzante ai fondamenti democratici della Repubblica, dichiarandosi fascisti e rivendicando una qual sorta di continuità con la dittatura del ventennio mussoliniano.

La tolleranza democristiana e dei governi del Pentapartito nei confronti della ricostituzione delle associazioni fasciste e del MSI, la presenza addirittura in Parlamento, fin dai primi anni ’50, di criminali di guerra come il maresciallo Rodolfo Graziani, è stato un prezzo da pagare? Per cosa?

Forse è stato invece un utile strumento per tenere impegnate le opposizioni comuniste e socialiste nella preparazione di un continuo stato di controbattuta alla voglia di revanchismo dei fascisti che si è prodotta nel fomentare le generazioni del dopoguerra ad una ripresa di un patriottismo legato al culto dell’uomo forte, delle leggi speciali, della pena di morte, dell’ordine contro il disordine, delle decisioni risolute contro le discussioni parlamentari.

Ma tutto questo, fino al 1989, era limitato per l’appunto ad ambiti di espressione sociale e politica minoritari che non trovavano spazio nella cultura del Paese, nel cinema, nella letteratura, nel giornalismo. Tanto meno in televisione e alla radio.

Quando quelle forze di governo, tolleranti le formazioni neofasciste, ma pur sempre riconducibili all’arco costituzionale, quindi all’antifascismo che aveva preso forma e corpo con la “Svolta di Salerno“, si sono dissolte, quando è venuta meno anche la principale forza di opposizione sociale, di sinistra del Paese, ecco che i nuovi partiti, ispirati alla tutela dei privilegi imprenditoriali e alla riconsiderazione della memoria storica sulla base della “pacificazione nazionale“, sedutisi a Palazzo Chigi hanno avuto buon gioco a presentarsi come rispettabili pur provenendo da una storia tutt’altro che democratica e costituzionale.

La legittimazione del neofascismo non è solamente attribuibile a singole dichiarazioni di esponenti politici di una certa nuova sinistra democratica. E’ evidente che affonda le sue radici nel percorso storico che demolisce l’impianto “proporzionale” della rappresentanza parlamentare, che inizia a prediligere il Governo rispetto al Parlamento come potere centrale della Repubblica: si avanzano così proposte di trasformazione presidenzialista della forma statale e di elezione diretta del Capo dello Stato da parte dei cittadini.

Non entra solo in crisi la cultura della memoria storica dell’Italia repubblicana: entra in crisi proprio la Repubblica italiana così come nata e cresciuta (malamente) secondo la Costituzione del 1948.

Riprendendo il resoconto stenografico del discorso di insediamento di Luciano Violante, come Presidente della Camera dei Deputati, il 10 maggio 1996, si legge:

“[Luciano Violante] afferma la necessità di investire innanzitutto sulla scuola e sulla formazione dei giovani, come precondizione essenziale allo sviluppo e alla competitività dell’Italia.
Passa poi ad esaminare le emergenze del Paese a partire dalla “questione settentrionale”, evidenziando tuttavia che pur nelle loro peculiarità esse sono tutte facilmente riconducibili all’incapacità dello Stato di erogare servizi adeguati ai cittadini e alle imprese.
Per correggere la rotta Violante propone innanzitutto di ridurre drasticamente il numero delle leggi, la cui inflazione compromette il principio della certezza del diritto. […]
Si esprime, infine, a favore di un federalismo solidale, che salvaguardi l’unità del Paese, faticosamente e dolorosamente conquistata attraverso le due grandi vicende della storia nazionale: il Risorgimento e la Resistenza, che auspica diventino le basi di una memoria collettiva condivisa
“.

Memoria collettiva condivisa. Tre semplici parole che non farebbero presagire nulla di negativo nel processo di riesame della storia d’Italia e che invece finiscono per divenire un grande spartiacque rispetto alla inconciliabilità dei valori e dei disvalori fino ad allora esistiti dentro la vita sociale, civile e morale della Repubblica. Si punta ad una condivisione della memoria per unificare lo Stato, per arrivare ad avere “valori nazionali comunemente condivisi” (queste le parole esatte del discorso di Violante ai deputati ed alle deputate).

Ma i valori nazionali comunemente condivisi sono quelli della Costituzione, dell’antifascismo: non sono il frutto di una sintesi che origina da un confronto di questi con valori che ne sono l’esatto contrario.

In una successiva intervista di molti anni dopo, nel 2015, a “Il Messaggero“, l’ex esponente del PDS affermerà nuovamente riguardo al suo discorso del maggio 1996:

Sostenni che, senza indulgere a un revisionismo falsificante, bisogna cercare di conoscere le ragioni per le quali molte migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando ormai tutto era perduto, passarono alla Repubblica di Salò piuttosto che dalla parte della libertà e della democrazia. Del resto, nella storia d’Italia, più volte frammenti delle giovani generazioni hanno scelto la strada della violenza. E penso, per esempio, agli anni del terrorismo rosso e nero.“. (Il Messaggero, 25 aprile 2015).

Il presupposto è onorevole: evitare il revisionismo che falsifica la storia e provare a capire come mai un popolo si divise in quella lotta. E’ un dilemma che ancora oggi la storiografia tedesca (e non solo) si pone nei riguardi della difesa ad oltranza del nazismo fino all’8 maggio del 1945, quando tutto non era perduto, ma di più. Dentro ad una disfatta e a cumuli di cadaveri e macerie, la volkssturm di Goebbels combatteva ancora contro i carri armati sovietici sotto la cancelleria del Reich.

Quella che Violante definisce una “ideologizzazione” della Resistenza e della lotta di liberazione, era invece una cultura dei valori della lotta per la libertà, per una Italia senza più il carcere totalizzante del fascismo. L’ideologia della Repubblica è e deve continuare ad essere l’antifascismo. Non si tratta di ridurre a mero dogmatismo i fatti storici, ma di esaltarne la loro tragicità per perpetuare proprio la memoria, anche quando questa ci mostra le storture che nella Resistenza vi sono state ma che, pur messe tutte insieme, non contraddicono lo spirito di ribellione verso la tirannia, la voglia di riscatto del Paese davanti ad una dittatura durata venti anni e ad una guerra che ha massacrato milioni di persone e mandato a morire centinaia di migliaia di italiani in Francia, in Grecia, in Africa, in Russia.

Più che giusto indagare su tutti i fatti. Ma storicamente. Invece, il margine di ambiguità che involontariamente ne deriva da dichiarazioni che vogliono una Resistenza non “ideologizzata“, lasciano ad intendere che sia giusto “comprendere” le ragioni dei ragazzi di Salò andando oltre l’indagine storica, comprendendo nel senso di “capire” e capire nel senso di “giustificare” quel posizionamento. Insomma: delle ragioni c’erano da entrambe le parti. Per stare dall’una e dall’altra parte.

Assumendo il punto di vista dell’antifascismo, della libertà e della Resistenza, le ragioni per stare con il fascismo decaduto e incartapecorito di Salò non c’erano e se c’erano queste potevano riscontrarsi solamente in ricatti personali, paura, nuovo terrore e situazioni contingenti che con la volontà avevano poco a che fare.

Solo pochi battaglioni di fanatici fascisti furono un pezzo di spina dorsale della repubblichetta fascista completamente gestita e controllata dal Terzo Reich. Il resto fu diserzione che ingrossò le fila partigiane e obbedienza estorta.

I neofascisti moderni vogliono vedere in quel tentativo di rivalsa del fascismo un riscatto nazionale nero che non ci fu mai veramente e che soprattutto non fu mai “di popolo“, ma che obbligò migliaia di giovani ad indossare una divisa di cui avrebbero fatto volentieri a meno.

Da parte partigiana, invece, l’adesione alla Resistenza era libera: nessuno era strappato dalle case per combattere i fascisti. Lo faceva solo chi decideva di rischiare la propria vita per poter presto tornare a vivere in pace, sulle proprie terre, a casa sua, con la sua famiglia.

Il “punto di vista” rimane dunque parziale in quanto a interpretazione della verità storica, ma non può esimersi dall’assumere un connotato etico, moralmente declinabile sul piano politico e quindi interessabile la coscienza civile di un popolo che nel conoscere a fondo le ragioni della Resistenza non deve giustificarne ogni atto, ma sapere che dal particolare non si può giudicare l’universale: anche tra i fascisti c’era qualcuno con un briciolo di umanità, di coscienza, capace di provare empatia per le sofferenze delle torture, avverso alla guerra, incapace di ridursi ad una semplicistica macchina disumana di odio. Eppure questo non fa del fascismo la “parte buona” della storia dell’Italia di quel periodo.

La vergogna di dirsi fascisti deve tornare ad essere la conseguenza della riappropriazione popolare dei valori di libertà ed uguaglianza propri della Resistenza, della Costituzione, della Repubblica. Ogni ambiguità deve dissolversi attraverso un’opera di studio di massa, di apprendimento della grande tragedia del Novecento attraverso un lavoro che deve vedere la collaborazione delle più alte istituzioni con scuole, centri di aggregazione, mezzi di informazione di qualunque tipo.

Laddove è possibile va contrastata ogni falsa notizia, ogni revisionismo storico con contestazioni particolareggiate, se non basta la semplice dimostrazione dell’insensatezza e della crudeltà del regime fascista e dell’orrore nazista.

Ma la vergogna del dirsi e dell’essere fascisti, razzisti, antisemiti, omofobi, cultori delle differenze mediante l’odio come fonte emotiva unica ascrivibile alla preservazione della sovranità italiana ovunque e comunque, deve ritrovare il suo legittimo spazio nella coscienza collettiva e singolare.

Essere cittadini deve voler dire essere prima di tutto antifascisti, repubblicani e magari anche comunisti e libertari. Ma queste due ultime qualità sono un plusvalore positivo su cui necessita tornare a lavorare molto più abbondantemente rispetto alla questione che qui abbiamo, forse un po’ troppo lungamente, trattato.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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