Il “caso Gregoretti” e l’intero Paese. Potrebbe essere un titolo di qualunque giornale che seriamente voglia affrontare quello che sembra un fatto riguardante esclusivamente il leader della Lega e che, invece, scopriremo nelle settimane e nei mesi a venire, coinvolgerà le forze politiche tutte. Quelle di maggioranza nella tenuta del governo e quelle di opposizione nell’impedimento di un logorio che le contraddizioni dei tanti “equilibri sopra la follia” determinati dalle scaramucce tatticistiche potrebbero addirittura creare delle situazioni di “concorrenza” politica tra sovranisti della stessa (o simil) specie.

I tempi dei processi sono molto lunghi: uno dei patemi della giustizia italiana. Se vi si aggiungono i tempi paralleli di una politica che invece somiglia ad un velocissimo mutaforme, ne viene fuori un pasticciaccio brutto che può avere colpi e contraccolpi inimmaginabili al momento.

Il processo a Matteo Salvini potrebbe iniziare con il leader della Lega all’opposizione e terminare con lo stesso a Palazzo Chigi, magari questa volta nelle vesti di Presidente del Consiglio dei Ministri: del resto nel simbolo del suo partito c’è sempre scritto a lettere ben chiare: “Salvini premier“. Il progetto rimane quello, senza se e senza ma.

Le argomentazioni populistiche e demagogiche per creare il “capro espiatorio” ci sono già tutte e si sono viste anche nella diretta dal Senato della Repubblica proprio ieri: naturalmente , seppur involontariamente, contribuiscono a questo plasmare l’innocente vessato da qualche “fumus persecutionis“, visto che – a detta sua – si sarebbe soltanto limitato all’applicazione dell’articolo 52 della Costituzione, a difendere i confini dello Stato.

Peccato che la Carta del 1948 non parla di ciò in quell’articolo, bensì del fatto che “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino“. Dettagli. Patria, Stato, confini, Nazione, difesa: tutto viene messo nello stesso calderone, fa brodo e il rancio per le masse è pronto.

I programmi urlanti e urlatori delle varie reti televisive e i social network faranno la loro restante parte. Del resto, il clima nel Paese è tale per cui se si facesse un referendum sul “caso Gregoretti“, Salvini verrebbe assolto a furor di popolo, anche se la Lega nei sondaggi pare in leggero calo dopo la sconfitta in Emilia Romagna.

Per questo l’impiccio del rinvio a processo rimane un impiccio, proprio per i tempi lunghi che si prospettano, ma può tornare utile in campagna elettorale e, comunque, in quella “lunga traversata nel deserto” che certi leghisti ritengono di dover affrontare se il governo non dovesse cadere immediatamente per mano di Renzi.

Sconcertanti sono tutti gli effetti delle politiche sovraniste del Conte I che non vengono limitati e nemmeno controvertiti dal Conte II: il cambio di maggioranza, del resto, è stato parziale e i compromessi devono svolgere il loro imprescindibile ruolo di comprimari dell’azione di governo. Soprattutto se si tratta di equipollenze cercate per evitare di disperdere un elettorato che, da destra, guardava a forze interclassiste e anti-ideologiche (ammesso che ne possano davvero esistere, anche solo stando alle presunzioni espresse dai loro fondatori) e che è facile preda, nella soddisfazione delle proprie pulsioni, della propaganda nazionalista di nuovo modello.

Impossibile per la maggioranza di governo assumere su di sé una coscienza del “problema-Salvini” come problema sociale e non solamente politico: le dinamiche interne all’esecutivo parlano di una difesa dell’economia privata che anche i sovranisti ricercano; di una tutela dei privilegi di classe che pure il finto corporativismo sociale delle destre non nasconde come uno degli assi portanti dell’unità tra le diverse anime liberiste.

E’ tanto vero da sentire ipotizzare, in ambiti leghisti, qualora il logorio del moderno processo dovesse protrarsi oltre ogni immaginabile tempistica, una caduta del Conte II per passare ad un governo tecnico a guida Mario Draghi: nome che non dispiace ai sovranisti (almeno a quelli ad oggi maggioritari nell’alveo delle destre) e che piacerebbe magari anche a settori di centro come Italia Viva, piccoli residui democristiani sparsi qua e là nel Parlamento.

Ma esiste un inconveniente o meglio una contraddizione: la figura dell’ex governatore della Banca Centrale Europea potrebbe alla lunga finire per relegare in secondo piano il salvinismo e creare nella buona borghesia imprenditoriale italiana un nuovo asse di potere politico su cui puntare, rinunciando volentieri a dover sostenere le isterie sovraniste sulle differenze di etnia, di cultura, di presunte razze, di securitarismo totalizzante e qualunque altro accessorio simile per poter trovare un nuovo fulcro politico cui affidare la protezione dei soliti interessi di classe.

Dunque, il “caso Gregoretti” è destinato a far parlare più che di sé stesso, di tutto quanto lo circonda e, come si evince, si tratta dal complesso mondo di una politica italiana priva in trasformazione, dove i rapporti di forza tra le parti si stanno ridefinendo, con la mobilità di un elettorato che aumenta e che persino i sondaggisti fanno fatica a rilevare da settimana a settimana.

In questa difficile fase si inserisce persino l’allarme per il Coronavirus che assume tratti sovranisticamente etnici, paure e fobie sociali si scatenano da Facebook fino ai bar più sperduti d’Italia e gli stigmi nei confronti dei cinesi diventano tristissimo spettacolo di una credulità popolare che non cede allo sforzo di mettersi davanti ad una testiera di telefonino o computer e collegarsi al sito del Ministero della Salute per conoscere tanto il bollettino quotidiano in merito quanto le verità scientifiche cui fare riferimento e non le “fake news“.

Tutto fa brodo, si diceva. Infatti, tutto lo fa. Un brodo sempre più allungato con ingredienti allarmistici, pregiudizi, antisemitismo e revisionismo di una storia modernamente recente che non vuole diventare memoria civile del Paese perché la vera “condivisione” della stessa non è accettazione dei valori della Resistenza e della Costituzione, ma eterna guerra civile tra le due Italie che esistono fin dal 1943: quella che rivendica il primato nazionale e quella che rivendica il primato sociale e solidale.

La capacità di utilizzare i tempi lunghi del processo sull’ammollo per giorni e giorni della nave Gregoretti in mare e farne un prezioso alleato è fuori di dubbio per quanto riguarda tanto la Bestia quanto la Vandea leghista. La risposta efficace, del resto, non potrà essere quella delle forze moderate di governo: perché inevitabilmente sarà una risposta tutta politicista. Se così sarà, l’imputato si trasformerà in accusatore e si ribalteranno le carte processuali, col supporto di una attenzione popolare stimolata da un cannibalismo quotidiano dei mezzi di comunicazione che si concentreranno giorno e notte sui risvolti e le pieghe, tante e troppe che prenderanno ovviamente forma.

La risposta deve invece poter essere sociale e deve già da ora vedere l’opposizione comunista e di sinistra abbandonare i tatticismi, le sensazioni di grandeur elettoralistiche e promuovere l’esatto opposto di quanto oggi sta facendo il governo in materia di politiche economiche e del lavoro.

Senza segnali precisi in merito, senza l’abolizione del Jobs act, il ripristino delle garanzie minime per avere un lavoro sicuro e non precario, il ripristino delle tutele dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori; senza una politica sindacale che spinga verso una rivendicazione di massa come in Francia, per una riduzione dell’orario di lavoro a 30 ore settimanali a parità di salario; senza incentivi economici e strutturali per la riqualificazione del ruolo pubblico della scuola, la gente più debole economicamente, sfibrata e sfiancata dalle tante e troppe finte riforme progressiste di questi anni, finirà per ingrossare ancora di più la pletora di consensi che già oggi ingrossa le file della destra neofascista e sovranista.

Ma è chiaro che l’abolizione del Jobs act non la possiamo chiedere a Matteo Renzi e probabilmente nemmeno al PD. Così come è difficile che i Decreti sicurezza vengano completamente aboliti dai Cinquestelle. Del resto, si parla di cambiamento dei medesimi. Ma una legge ingiusta non si cambia: si depenna, si cancella, la si archivia definitivamente come vergogna per il Paese.

E la si ricorda, proprio come si dovrebbe ricordare l’infamia delle Leggi razziali del 1938, la cui memoria oggi pare sbiadire davanti ai tanti episodi di antisemitismo e di odio che marchiano mura e porte di deportati con stelle di Davide, scritte ingiuriose e inviti alla discriminazione.

Ci si sveglia al mattino e si va a scuola e magari si trova sul muro dell’edificio un vilipendio verso Anna Frank, qualche croce celtica o tanti striscioni di organizzazioni neofasciste che accusano l’ANPI di essere revisionista in materia di foibe.

Le vittime del Terzo Reich e le associazioni che difendono la democrazia e la Repubblica, la Costituzione e il Parlamento diventano colpevoli di esistere, un anacronismo da deridere nel migliore dei casi, da colpire con atti di vera e propria violenza nel peggiore dei casi stessi.

Una crudeltà che si cela sempre dietro la svastica invisibile che sedimenta nell’ignoranza, nel pressapochismo, nella banalità del vuoto delle idee e del pieno dei pregiudizi e della cattiveria. Frutto della miseria economica, della depressione antisociale, della rabbia che non trova sfogo nelle organizzazioni dei lavoratori ma che si sente rappresentata dai sovranisti.

Per questo anche il “caso Gregoretti” chiama in causa tutte e tutti noi ad un veloce riavvio del lavoro di ricomposizione della sinistra di classe: perché, come canta Guccini in “Don Chisciotte“, “…ma dobbiamo fare presto perché più che il tempo passa / il nemico si fa d’ombra e s’ingarbuglia la matassa…“.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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