di Chris Hedges

Il conflitto israelo-palestinese non è il prodotto di antichi odi etnici. E’ il tragico scontro tra due popoli che reclamano la stessa terra. E’ un conflitto artificiale, il risultato di cento anni di occupazione coloniale da parte di sionisti e successivamente di Israele, con il sostegno di britannici, Stati Uniti e altre grandi potenze imperiali. Questo progetto riguarda il continuo sequestro di terre palestinesi da parte dei colonizzatori. Riguarda il rendere i palestinesi un non-popolo, cancellandoli dalla narrazione storica come se non fossero mai esistiti e negando loro diritti umani fondamentali. Tuttavia affermare questi fatti incontrovertibili della colonizzazione ebrea – sostenuti da innumerevoli rapporti ufficiali e comunicati e dichiarazioni pubbliche e private, accanto a documenti ed eventi storici – vede i difensori di Israele scagliare accuse di antisemitismo e razzismo.

Rashid Khalidi, titolare della cattedra Edward Said di studi arabi moderni presso la Columbia University, nel suo libro “The Hundred Years’ War on Palestine: A History of Settler Colonization and Resistance, 1917-2017” ha meticolosamente documentato questo lungo progetto di colonizzazione della Palestina. La sua esaustiva ricerca, che include comunicazioni interne private tra i primi sionisti e la dirigenza israeliana, non lascia dubbi che i colonizzatori ebrei fossero acutamente consapevoli fin dall’inizio che il popolo palestinese doveva essere soggiogato e rimosso per creare lo stato ebreo. La dirigenza ebrea era così acutamente consapevole che le sue intenzioni dovettero essere mascherate dietro eufemismi, la patina della legittimazione biblica degli ebrei a una terra che era stata mussulmana fin dal settimo secolo, stereotipi circa i diritti umani e democratici, i presunti vantaggi della colonizzazione per i colonizzati e un appello mendace alla democrazia e alla coesistenza pacifica con i destinati alla distruzione.

“Quello cui siamo stato assoggettati è un colonialismo unico, in cui non hanno nessun uso per noi”, Khalidi cita da uno scritto di Said. “Per loro il palestinese migliore”, scrisse Said, “è o morto oppure se n’è andato. Non è che vogliano sfruttarci o che abbiano bisogno di tenerci come sottoclasse al modo dell’Algeria o del Sudafrica”.

Il sionismo è stato generato dai mali dell’antisemitismo. E’ stato una reazione alla discriminazione e alle violenze inflitte agli ebrei, specialmente durante i feroci pogrom in Russia e in Europa Orientale nel tardo diciannovesimo secolo e agli inizi del ventesimo che lasciarono migliaia di morti. Il leader sionista Theodor Herzl pubblicò nel 1896 “Der Judenstaat” o “lo stato ebraico”, in cui avvertì che gli ebrei non erano sicuri in Europa, un avvertimento che nel giro di pochi decenni si dimostrò preveggente in modo terrificante con l’ascesa del fascismo tedesco.

Il sostegno della Gran Bretagna a una patria ebrea è sempre stato venato di antisemitismo. La decisione del 1917 del gabinetto britannico, come formulata nella Dichiarazione Balfour, di sostegno alla “creazione in Palestina di una patria nazionale per il popolo ebreo” fu una parte principale di un’impresa mal consigliata basata su cliché antisemiti. Fu intrapresa dall’élite dominante britannica per unire “l’ebraismo internazionale” – compresi dirigenti di ascendenza ebrea in posizioni elevati nel nuovo stato bolscevico in Russia – a sostegno della vacillante campagna militare britannica nella Prima guerra mondiale. I leader britannici era convinti che gli ebrei controllassero segretamente il sistema finanziario statunitense. Gli ebrei statunitensi, una volta promessa loro una patria in Palestina, avrebbero, così pensavano, portato gli Stati Uniti in guerra e contribuito a finanziare lo sforzo bellico. Sommandosi a queste bizzarre fantasie antisemite, i britannici ritenevano che ebrei e dönmes – o “cripto-ebrei” i cui antenati si erano convertiti al cristianesimo ma avevano continuato a praticare i riti del giudaismo in segreto – controllassero il governo turco. Se ai sionisti fosse stata offerta una patria in Palestina, ritenevano i britannici, gli ebrei e i  dönmes avrebbero attaccato il regime turco, che era alleato della Germania nella guerra, e il governo turco sarebbe crollato. L’ebraismo mondiale, erano convinti i britannici, era la chiave per vincere la guerra.

“Con il ‘grande ebraismo’ contro di noi”, ammonì il britannico sir Mark Sykes, che con il diplomatico francese Francois Geoges-Picot creò il trattato segreto che divise l’impero ottomano tra Gran Bretagna e Francia, non ci sarebbe stata nessuna possibilità di vittoria. Il sionismo, disse Sykes, era una potente forza sotterranea che era “atmosferica, internazionale, cosmopolita, inconscia e non scritta, né spesso espressa a parole”.

Le élite britanniche, compreso il Segretario agli Esteri Arthur Balfour, ritenevano anche che gli ebrei non avrebbero mai potuto essere assimilati nella società britannica e che fosse meglio per loro emigrare. E’ indicativo che il solo membro ebreo del governo del primo ministro David Lloyd George, Edwin Montagu, si opponesse in modo veemente alla Dichiarazione Balfour. Egli sosteneva che avrebbe incoraggiato gli stati a espellere gli ebrei. “La Palestina diventerà il ghetto del mondo”, avvertì.

Ciò si rivelò vero dopo la Seconda guerra mondiale, quando centinaia di migliaia di profughi ebrei, molti resi apolidi, non ebbero altro luogo dove andare che la Palestina. Spesso le loro comunità erano state distrutte durante la guerra o le loro case e terre erano state confiscate. Gli ebrei che tornarono in paesi come la Polonia, scoprirono di non avere nessun posto in cui vivere e furono spesso vittime di discriminazioni e anche di aggressioni e massacri antisemiti postbellici.

Le potenze europee gestirono la crisi dei profughi ebrei mandando le vittime dell’Olocausto in Medio Oriente. Così, mentre sionisti di spicco capivano che avrebbero dovuto sradicare e cacciare gli arabi per creare una patria, erano anche acutamente consapevoli di non essere voluti nei paesi da cui erano fuggiti ed erano stati espulsi. I sionisti e i loro sostenitori possono aver sparato slogan quali “una terra senza un popolo per un popolo senza una terra” parlando della Palestina ma, come ha osservato la filosofa della politica Hannah Arendt, le potenze europee stavano tentando di far fronte al crimine commesso contro gli ebrei in Europa commettendo un altro crimine, contro i palestinesi. Fu una ricetta per un conflitto interminabile, specialmente perché dare ai palestinesi sotto occupazione pieni diritti democratici avrebbe rischiato di far perdere agli ebrei il controllo di Israele.

Ze’ev Jabotinski, il padrino dell’ideologia di destra che ha dominato Israele dal 1977, un’ideologia sposata apertamente dai primi ministri Menachem Begin, Yitzhak Shamir, Ariel Sharon, Ehud Olmert e Benjamin Netanyahu, scrisse senza giri di parole nel 1923: “Ogni popolazione nativa al mondo si oppone ai colonizzatori fintanto che ha la minima speranza di essere in grado di aver ragione del pericolo di essere colonizzata. E’ questo che stanno facendo gli arabi in Palestina e persisteranno a farlo fintanto che rimarrà una singola scintilla di speranza di riuscire a impedire la trasformazione della ‘Palestina’ nella ‘Terra d’Israele’”.

Questo genere di onestà pubblica, osserva Khalidi, era raro tra i maggiori sionisti. La maggior parte dei leader sionisti “protestava l’innocente purezza dei suoi scopi e ingannava i propri ascoltatori occidentali, e forse sé stessa, con favole riguardo alle proprie intenzioni benigne nei confronti degli abitanti arabi della Palestina”, scrive. I sionisti – in una situazione simile a quella dei sostenitori odierni di Israele – erano consci che sarebbe stato fatale riconoscere che la creazione di una patria ebrea avrebbe richiesto l’espulsione della maggioranza araba. Un’ammissione simile avrebbe fatto perdere ai colonizzatori la simpatia del mondo. Ma tra di loro i sionisti comprendevano chiaramente che l’uso della forza armata contro la maggioranza araba era essenziale perché il progetto coloniale riuscisse. “La colonizzazione sionista… può procedere e svilupparsi solo sotto la protezione di una potenza che sia indipendente dalla popolazione nativa, e dietro un muro di ferro che la popolazione nativa non possa abbattere”, scrisse Jabotinski.

I colonizzatori ebrei sapevano di aver bisogno di un patrono internazionale per avere successo e sopravvivere. Il loro primo patrono fu la Gran Bretagna, che inviò 100.000 soldati a reprimere la rivolta palestinese degli anni Trenta e armò e addestrò milizie ebree note come la Haganah. La feroce repressione della rivolta incluse esecuzioni di massa e bombardamenti aerei e lasciò il 10 per cento della popolazione maschile adulta araba ucciso, ferito, incarcerato o esiliato. Il secondo patrono dei sionisti divennero gli Stati Uniti che oggi, generazioni dopo, forniscono più di 3 miliardi di dollari l’anno a Israele. Israele, nonostante il mito dell’autosufficienza che spaccia riguardo a sé stesso, non sarebbe in grado di mantenere le proprie colonie palestinesi se non grazie ai suoi benefattori imperiali. E’ per questo che il movimento per il boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni spaventa Israele. E’ anche il motivo per cui io appoggio il movimento BDS.

I primi sionisti fecero incetta di vasti tratti di terre palestinesi fertili e cacciarono gli abitanti indigeni. Sovvenzionarono coloni ebrei europei inviati in Palestina, dove il 94 per cento degli abitanti era arabo. Crearono organizzazioni come l’Associazione della Colonizzazione Ebrea, in seguito chiamata Associazione della Colonizzazione Ebrea della Palestina, per gestire il progetto sionista.

Ma, come scrive Khalidi, “una volta che il colonialismo ebbe assunto un cattivo odore nell’era di decolonizzazione post Seconda guerra mondiale, le origini e la prassi coloniale originali del sionismo furono riverniciate e convenientemente dimenticate in Israele e in occidente. In effetti il sionismo – per due decenni il figliastro coccolato del colonialismo britannico – si diede il nuovo marchio di movimento anticoloniale”.

“Oggi il conflitto generato da questa classica impresa coloniale europea del diciannovesimo secolo in una paese non europeo, appoggiata dal 1917 in poi dalla più grande potenza imperiale occidentale dell’epoca, è raramente descritto in tali termini crudi”, scrive Khalidi. “In verità, quelli che analizzano non solo gli sforzi israeliani di insediamento a Gerusalemme, West Bank e Alture del Golan siriane occupate, ma anche l’intera impresa sionista dalla prospettiva delle sue origini e della sua natura coloniale d’insediamento sono spesso denigrati. Molti non riescono ad accettare la contraddizione intrinseca all’idea che anche se il sionismo è indubbiamente riuscito a creare un’entità nazionale prospera in Israele, le sue radici sono di un progetto coloniale d’insediamento (come quelli di altri paesi moderni: Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda). Né riescono da accettare che non avrebbe avuto successo senza il sostegno delle grandi potenze imperiali, Gran Bretagna e in seguito Stati Uniti. Il sionismo, pertanto, potrebbe essere, ed è stato, sia un movimento nazionale sia uno di insediamento coloniale allo stesso tempo”.

Uno dei principi centrali della colonizzazione sionista e israeliana è la negazione di un’identità palestinese autentica indipendente. Durante il controllo britannico della Palestina, la popolazione fu ufficialmente divisa in ebrei e “non ebrei”. “Non c’era una cosa come i palestinesi… non esistevano”, fu la battuta del primo ministro israeliano d’un tempo Golda Meir. Questa cancellazione, che richiede un atto vergognoso di amnesia storica, è ciò che il sociologo israeliano Baruch Kimmerling ha chiamato il “politicidio” del popolo palestinese. Khalidi scrive: “Il modo più sicuro per sradicare il diritto di un popolo alla propria terra consiste nel negare il suo legame storico con essa”.

La creazione dello stato d’Israele, il 15 maggio 1948, fu ottenuto dalla Haganah e da altri gruppi ebrei mediante la pulizia etnica dei palestinesi e massacri che diffusero il terrore tra la popolazione palestinese. La Haganah, addestrata e armata dai britannici, si impossessò rapidamente della maggior parte della Palestina. Svuotò dei suoi abitanti arabi Gerusalemme Est e città quali Haifa e Giaffa, assieme a numerose cittadine e paesi. I palestinesi chiamano questo momento della loro storia la Nakba, o Catastrofe.

“Arrivati all’estate del 1949 il sistema di governo palestinese era stato devastato e la maggior parte della sua società sradicata”, scrive Khalidi. “Circa l’80 per cento della popolazione araba del territorio che alla fine della guerra era divento lo stato d’Israele era stato cacciato dalle proprie case e aveva perso terre e proprietà. Almeno 720.000 degli 1,3 milioni di palestinesi furono resi profughi. Grazie a questa trasformazione violenta, Israele controllò il 78 per cento del territorio dell’ex Mandato Palestinese e a quel punto dominava sui 160.000 arabi palestinesi che erano stati in grado di restare, a malapena un quinto della popolazione araba anteguerra”.

Dal 1948 i palestinesi hanno eroicamente montato un tentativo di resistenza dopo l’altro, tutti scatenanti rappresaglie israeliane sproporzionate e una demonizzazione dei palestinesi quali terroristi. Ma questa resistenza ha anche costretto il mondo a riconoscere la presenza dei palestinesi, nonostante i febbrili sforzi di Israele, degli Stati Uniti e di molti regimi arabi di cancellarli dalla coscienza storica. Le ripetute rivolte, come aveva segnalato Said, hanno dato ai palestinesi il diritto di narrare la propria storia, il “permesso di narrare”.

Il progetto coloniale ha avvelenato Israele, come temuto dai suo leader più preveggenti, tra cui Moshe Dayan e il primo ministro Yitzhak Rabin, che fu assassinato da estremista ebreo di destra nel 1995. Israele è uno stato di apartheid che rivaleggia, spesso superandoli, con la ferocia e il razzismo di un tempo di un tempo dell’apartheid sudafricano. La sua democrazia – che è sempre stata riservata agli ebrei – è stata dirottata da estremisti, compreso il primo ministro attuale Benjamin Netanyahu, che hanno messo in atto leggi razziali di cui erano un tempo campioni fanatici emarginati quali Meir Kahane. Il pubblico israeliano è infettato dal razzismo. “Morte agli arabi” è uno slogan popolare durante le partite di calcio israeliane. Aggressori e vigilantes ebrei, tra cui teppisti di movimenti giovanili di destra quali Im Tirtzu, conducono atti indiscriminati di vandalismo e violenza contro dissidenti, palestinesi, arabi israeliani e sfortunati immigrati africani che vivono stipati nei bassifondi di Tel Aviv. Israele ha promulgato una serie di leggi discriminatrici contro non ebrei che ricordano sinistramente le razziste Leggi di Norimberga che privarono dei diritti gli ebrei nella Germania nazista. La Legge sull’Accettazione Comunitaria permette a cittadine esclusivamente ebree della regione israeliana della Galilea di escludere richiedenti residenza in base alla “compatibilità con l’atteggiamento fondamentale della comunità”. Lo scomparso Uri Avnery, un politico e giornalista di sinistra, scrisse ha “l’esistenza stessa di Israele è minacciata di fascismo”.

In anni recenti fino a un milione di israeliani se n’è andato a vivere negli Stati Uniti, molti di loro tra i cittadini più illuminati e istruiti di Israele. In Israele promotori dei diritti umani, intellettuali e giornalisti – israeliani e palestinesi – si sono trovati accusati di essere dei traditori in campagne di diffamazione patrocinate dal governo, posti sotto sorveglianza statale e sottoposti ad arresti arbitrari. Il sistema educativo israeliano, a partire dalle elementari, è una macchina di indottrinamento per l’esercito. L’esercito israeliano scatena periodicamente grandi attacchi con la sua aviazione, artiglieria e unità meccanizzate contro gli 1,85 milioni di palestinesi indifesi di Gaza, determinando migliaia di morti e feriti palestinesi. Israele gestisce il campo di detenzione di Saharonim nel Deserto del Negev, uno dei più vasti centri di detenzione del mondo, in cui migranti africani possono essere trattenuti fino a tre anni senza processo.

Il grande studioso ebreo Yeshayahu Leibowitz, che Isaiah Berlin definì “la coscienza di Israele”, vide il pericolo mortale per Israele del suo progetto coloniale. Avvertì che se Israele non avesse separato chiesa e stato e non avesse posto fine alla sua occupazione coloniale dei palestinesi, avrebbe fatto crescere un rabbinato corrotto che avrebbe deformato il giudaismo in un culto fascista. “Il nazionalismo religioso è per la religione quello che il nazionalsocialismo è stato per il socialismo”, disse Leibowitz, morto nel 1994. Egli comprese che la cieca venerazione dell’esercito, specialmente dopo la guerra del 1967 in cui Israele conquistò la West Bank e Gerusalemme Est, avrebbe determinato la degenerazione della società ebrea e la morte della democrazia.

“La nostra situazione si deteriorerà a quella di un secondo Vietnam [un riferimento alla guerra condotta dagli Stati Uniti negli anni Settanta], a una guerra in costante acutizzazione senza prospettive di una soluzione definitiva”, scrisse Leibowitz. Egli previde che “gli arabi saranno i lavoratori e gli ebrei gli amministratori, ispettori, dirigenti e la polizia… prevalentemente polizia segreta. Uno stato che governa una popolazione ostile di 1,5-2 milioni di stranieri diverrà necessariamente uno stato di polizia segreta, con tutto ciò che implica per l’istruzione, la libertà di espressione e le istituzioni democratiche. La corruzione caratteristica di ogni regime coloniale prevarrà anche nello stato d’Israele. L’amministrazione dovrà sopprimere la rivolta araba da una parte e acquisire Quisling arabi dall’altra. C’è anche un buon motivo di temere che l’esercito israeliano, che sinora è stato un esercito popolare, degenererà, in conseguenza della sua trasformazione in un esercito di occupazione, e i suoi comandanti, che diverranno governatori militari, assomiglieranno ai loro colleghi di altre nazioni”.

I sionisti non avrebbero mai potuto colonizzare i palestinesi senza il sostegno di potenze imperiali occidentali i cui motivi erano contaminati da antisemitismo. Molti degli ebrei fuggiti in Israele non lo avrebbero fatto se non per il virulento antisemitismo europeo che alla fine della Seconda guerra mondiale vide sei milioni di ebrei assassinati. Israele fu tutto ciò che era rimasto per molti sopravvissuti impoveriti e apolidi, derubati dei loro diritti nazionali, delle loro comunità, delle loro case e spesso della maggior parte dei parenti. Divenne il destino tragico dei palestinesi, che non avevano avuto alcun ruolo nei pogrom europei o nell’Olocausto, essere sacrificati sull’altare dell’odio.

da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Originale: https://www.truthdig.com/articles/the-zionist-colonization-of-palestine/

Traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2020 ZNET Italy

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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