Qualcuno ha paragonato i “pieni poteri” di Viktor Orbán a quelli che si sarebbe dato Giuseppe Conte mediante la decretazione d’urgenza imposta, oggettivamente, dall’emergenza Coronavirus scoppiata in Italia nello scorso febbraio. Chi ha fatto questo paragone, evidentemente poco conosce la nostra Costituzione, oppure fa parte della pletora sconclusionata degli oppositori sovranisti italiani che in patria lamentano la dittatura e poi plaudono all’uomo solo al comando in Ungheria.

Diciamo che, nel caso dei sovranisti italiani, che avevano pensato di invocare la pienezza dei poteri già mesi e mesi fa, in barba alle fondamenta della Carta del 1948, la recidiva vale solo nel caso in cui siano essi stessi ad incarnare malamente la democrazia repubblicana.

Chi scrive non approva questo governo, lo critica anche duramente, ma ritiene che in questa fase si sia mosso – per quanto con macroscopici inciampi ed errori di valutazione – con quella cautela istituzionale che non ha prevaricato né il Parlamento, né tanto meno la Presidenza della Repubblica e neppure le istituzioni locali che, spesso intrise di un regionalismo deviato, figlio della infausta riforma del Titolo V della Costituzione, pensano di poter gestire separatamente dal governo le questioni di interesse nazionale.

Paragonare la decretazione d’urgenza a quanto preteso e ottenuto da Orbán nella sua Ungheria, è frutto di malafede se non di ignoranza, per l’appunto, delle norme fondamentali che reggono la nostra Repubblica. Il caso magiaro, unico nel suo genere al momento nel contesto dell’Unione Europea, viene trattato da alcuni commentatori con quello spregio politico che dovrebbe condurre la Commissione e il Parlamento del Vecchio Continente ad ipotizzare l’esclusione di Budapest dal consesso “democratico” (ci si perdonino le virgolette, ma proprio non se può fare a meno…) della UE. Questo per mostrare e dimostrare l’intransigenza giusta dell’Unione nei confronti del rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino scritti nel Trattato comunitario.

Tuttavia, mi si lasci ritenere questo modus operandi una vera e propria stupidaggine, perché altro non farebbe se non il gioco di Orbán nel voler mostrare al mondo che, davanti al fallimento della gestione europea della pandemia da Covid-19 – peraltro palese, evidente, sotto gli occhi di tutti coloro che non hanno fette di prosciutto capitalistico-finanziario sugli occhi – l’unica soluzione è affidarsi al ritorno all’angustia degli Stati nazionali, delle regimentazioni dei confini, alzando oltre a muri di filo spinato anche quelli di nuove dittature frutto di poteri pienissimi di un autoritarismo che sanziona col carcere non solo i propagatori di “fake news” ma anche chi critica apertamente il governo.

Credo sia questo punto quello che maggiormente deve allarmare, perché, mentre in Italia l’opposizione di destra e sovranista definisce il Presidente del Consiglio “criminale” (le registrazioni televisive sono ancora lì a dimostrarlo…) e mentre si ostenta una presunta fede nei salotti della domenica pomeriggio recitando la preghiera dell’“Eterno riposo” per le vittime del Coronavirus, strumentalizzando non solo il credo ma anche l’intimità del dolore di chi ha perso i propri cari (il che rende tutto questo spregevole e indegno di rappresentanti politici della nazione), in Ungheria sarà impossibile qualunque stigmatizzazione dell’operato di Orbán.

Persino il partito ultranazionalista degli Jobbik, famosi per la loro spasmodica voglia di riportare l’Ungheria ai confini del tempo di Cecco Beppe, ha definito quello del leader magiaro un vero e proprio colpo di Stato.

Nell’ordine, Viktor Orbán potrà:

1) prolungare a suo piacere (quindi senza alcun passaggio parlamentare) lo “stato di emergenza” proclamato l’11 marzo scorso in Ungheria;

2) regolare di conseguenza tutta la normativa fatta di decreti personali che non saranno mai – come quelli riordinati dal dal governo italiano – convertiti in Decreti Legge (che per essere normativa dello Stato devono passare attraverso le due nostre Camere), ma rimarranno disposizioni del primo ministro, sic et simpliciter;

3) confermare e/o estendere le norme repressive sulle notizie false e sulle opinioni espresse dalla stampa, dalle televisioni e dai mass media sul web con propria esclusiva decisione. Anche qui non è previsto alcun confronto con le opposizioni, diretto o indiretto che sia. Nessun dialogo, nessuna responsabilità davanti al Parlamento di Budapest.

Ciò significa per Orbán assicurare alla classe imprenditoriale ungherese il suo totale, incondizionato pieno appoggio senza dover rendere conto a nessuno del metodo con cui affronterà l’emergenza nazionale sul Coronavirus.

In Italia il governo ha dovuto dialogare con le parti sociali, dai sindacati dei lavoratori a Confindustria e ha dovuto rapportarsi con la Presidenza della Repubblica che, al contrario di quanto accade in Ungheria, ha dovuto richiamare proprio le opposizioni ad una fattiva collaborazione con le forze di maggioranza per evitare ostruzionismi perniciosi in questo drammatico momento, ma richiamando pure l’esecutivo a presentarsi alle Camere ogni due settimane per riferire in merito al proprio operato.

Le valutazioni critiche circa l’atteggiamento filo-padronale del governo sono un altro tema di discussione. Quello che qui importa sottolineare è che i “pieni poteri” di Orbán e i poteri del governo italiano non sono nemmeno paragonabili, perché in Italia i DPCM (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri) e i Decreti-Legge sono misure che sono previste dalla Costituzione e che servono ad affrontare urgenze che altrimenti sarebbe impossibile gestire tramite i tempi più lunghi delle discussioni parlamentari.

I detrattori del bicameralismo, come Matteo Renzi, potranno dire che se fosse stata approvata la sua contro-riforma incostituzionale nel dicembre del 2016, oggi tutto sarebbe più facile, veloce, lineare e magari il ruolo dell’esecutivo non soffrirebbe della necessità della decretazione d’urgenza. Invece ci troveremmo più vicini al “modello Orbán” e molto lontani dal modello costituzionale voluto dall’unità democratica e sociale del Dopoguerra che, nel bene e nel male, ha fino ad oggi retto, per 72 anni almeno…

E che si spera regga anche dopo la pandemia, quando andremo a votare per il referendum sul taglio dei parlamentari, voluto dalla maggioranza di governo, che rischia di aprire la strada ad una svalorizzazione del ruolo delle Camere nel contesto complessivo di una Repubblica che è e deve rimanere parlamentare, non tramutarsi in un sistema misto dove il bilanciamento dei poteri viene meno e dove il governo vale un punto in più rispetto al Parlamento.

Anche la proposta del Sindaco di Milano Sala, di avviare una nuova “Costituente“, come quella del 1946-48, per ridefinire i rapporti interni dello Stato è una ipotesi che rischia di soggiacere alle tante voglie di tramutazione della Repubblica parlamentare in una forma ibrida, pericolosissima per l’unità politico-istituzionale e sociale del Paese.

Una riforma simile, un tentativo di ridefinizione degli attuali (dis)equilibri di potere interni alla Repubblica, può contemplare l’esasperazione localistica dell’ “autonomia differenziata” caldeggiata dalla Lega (che non scorda mai del tutto il suo impianto local-egoistico che ha dimostrato molto bene tutta la sua insufficienza e pericolosità nella gestione sanitaria dell’emergenza attuale), privilegiando così le tutele per le fasce medio-alte della popolazione e penalizzando milioni e milioni di lavoratori, di precari e disoccupati (nonché di pensionati…) unitamente ad una spinta centralista, ipergovernativa, improntata sull’elezione diretta del Capo dello Stato e dello stesso Presidente del Consiglio dei ministri.

Al centro delle istituzioni deve rimanere il Parlamento che, proprio per evitare di cadere in derive come quelle ungheresi, prese al volo dal sovranista di turno che inveisce contro le migrazioni, distingue i diritti per etnia e “ius sanguinis” e “ius soli” e recita preghiere in televisione o agita il rosario e il Vangelo nei comizi (atteggiamenti integralistici che Francesco, come papa, non si sogna nemmeno lontanamente di mettere in pratica…), non può essere amputato nella sua rappresentanza, anzitutto.

Dunque, quando sarà il momento, dovremo battere con un corale NO la controriforma che vuole tagliare il numero dei parlamentari: il vero costo per i popoli non sono le democrazie ma le dittature dei mercati unite a quelle istituzionali che pretendono di risolvere i problemi con soluzioni semplici e che, da che mondo è mondo, hanno finito soltanto per distruggere intere nazioni con il militarismo, le guerre o la subordinazione ad altri padroni più potenti.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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