Nonostante l’incertezza sui reali dati del contagio, la pandemia per l’Africa potrebbe diventare disastrosa e gli africani, ancora una volta, pagherebbero il prezzo dei guai altri

In tutto il Continente africano i casi registrati finora di Covid-19 equivalgono ai nuovi positivi di Italia e Spagna di un solo giorno. Il contagio, mentre chiudiamo il dossier, ha raggiunto circa 13 mila persone (di cui circa 8 mila concentrati in sole 4 nazioni), anche se oramai il virus ha toccato praticamente tutti i Paesi, 52 su 54.

UNO SGUARDO AL CONTINENTE

Guardando una mappa del Continente, alcuni elementi balzano all’occhio: i Paesi più colpiti (Marocco, Algeria, Egitto, Tunisia, Sudafrica), che comunque contano un numero di contagi sotto le 2.000 unità, sono alcuni degli Stati affacciati sul Mediterraneo e, al polo opposto, il più meridionale, ossia quelli col clima più temperato, con variazioni stagionali di temperatura. Alcuni Paesi che contano alcune centinaia di casi (da poco più di cento a meno di 500) si trovano nell’Africa centrale (Repubblica Democratica del Congo, Nigeria, Niger, Camerun, Senegal, Costa d’Avorio). Nel resto del Continente si tratta di poche decine di casi.

Va anche detto che solo in alcuni Stati la comparsa del virus è recente (in qualche caso anche solo da pochi giorni), mentre nella maggioranza le prime segnalazioni risalgono ad alcune settimane fa, o anche a oltre un mese. Naturalmente, questa progressione lenta non può essere attribuita a una migliore capacità delle nazioni africane di contenere il contagio rispetto a realtà come quelle europee, o agli Stati Uniti, oppure alla stessa Cina, che ha avuto la prima esplosione della pandemia.

Occorre anche sottolineare, osservando le linee di crescita della diffusione del virus, che quelle dei Paesi con pochi casi sembrano avere una crescita del tutto diversa da quelle di aree che stanno vivendo le maggiori emergenze: si tratta, almeno finora, di un andamento lineare, o talvolta “a gradini”, non esponenziale com’è avvenuto in Cina e poi in Europa e negli Stati Uniti. Tuttavia, i Paesi africani più colpiti, quelli che oggi sono vicini o al di sopra delle mille unità, nell’ultima decina di giorni mostrano una linea di crescita che assomiglia a quelle europee, cinese o americana, cioè esponenziale, che negli ultimissimi giorni – fatte salve le differenze di scala (parliamo di decine di nuovi positivi, non di migliaia) – si stanno pericolosamente verticalizzando.

L’INCOGNITA TAMPONE

Un primo quesito: dove i casi sono pochi dipende da quanto si sta monitorando? In altre parole, così come in Italia oggi si attribuisce l’elevato numero di positivi di questi giorni al fatto che è fortemente cresciuto il numero di tamponi effettuato sulla popolazione, può essere che il numero esiguo di positivi in tanti Paesi africani sia dovuto in realtà a un’assenza o scarsità di monitoraggio? Verrebbe da rispondere di no, perché se da un lato è certo che la totalità dei sistemi sanitari africani è meno strutturata di quelli europei, è altrettanto vero che in tutti gli Stati del Continente nero sono comunque presenti, soprattutto nelle capitali e nelle grandi città, presidi medico-sanitari sia locali, sia di organizzazioni umanitarie internazionali in grado di rilevare, se non altro per campione, i focolai di contagio. Si potrebbe obiettare che il maggior numero di casi è stato individuato in Paesi che hanno una sanità più strutturata. Ma anche questo è vero fino a un certo punto: Ruanda, Kenya, Nigeria, Senegal non presentano realtà medico-sanitarie così diverse da quelle di Marocco, Tunisia o Sudafrica. Inoltre, i rapporti intrattenuti fra la Cina e moltissime delle nazioni africane sono intensi, sia a livello di relazioni commerciali, sia di spostamenti di persone da e per il Paese asiatico. Quindi, ammesso che, ad esempio, l’Italia abbia “importato” l’epidemia dalla Cina, per ragioni analoghe diversi Stati africani avrebbero dovuto manifestare i primi casi più o meno alla stessa epoca. Insomma, detto tutto questo, sembra che in ogni caso il Covid-19 abbia in Africa un andamento diffusivo diverso da quello a cui abbiamo assistito in Cina, Corea del Sud, Europa o Stati Uniti.

I RISCHI E LE IPOTESI

Questo non significa che il coronavirus non possa diventare una catastrofe per l’Africa. Il guaio è che lo può diventare a prescindere dalla dimensione della pandemia.

Resta il fatto che finora il virus ha avuto una “vita” diversa rispetto a tutta la fascia Nord del Pianeta. Sono state avanzate delle ipotesi, su questo. La prima. I climi caldi o molto caldi rendono meno aggressivo il coronavirus. Può essere. Chi ha avanzato questa teoria lo ha fatto rilevando che si è registrata una minore diffusione del virus nelle zone più calde e umide all’interno degli stessi Paesi duramente colpiti (anche i dati della pandemia in Sud Italia lo confermerebbero).

VULNERABILITÀ

L’altra ipotesi è che tra le zone più e meno colpite del Mondo c’è una fondamentale differenza, l’età media della popolazione: l’Europa e il Nord America sono regioni a lunghissima speranza di vita. Viceversa, in Africa il 60% del miliardo e 300 milioni di abitanti del Continente è sotto i 25 anni. Quello che non sappiamo – perché finora tutti i Paesi con maggiore contagio hanno reagito al virus solo in emergenza e quindi con mezzi insufficienti a monitorare in modo massivo la popolazione – è quanti sono gli asintomatici (ossia contagiati senza alcun sintomo che vada al di là di un raffreddore) e quanti i paucisintomatici (ossia con sintomi paragonabili a una influenza neanche tanto forte). L’ipotesi quindi è che in Africa il virus possa essere molto, ma molto più presente di quanto sia stato rilevato, ma con nulli o pochi sintomi. Se così fosse, si potrebbe ipotizzare una sorta di singolare “immunità di gregge”, che si crea per via dell’età media molto bassa: il Covid-19 non trova con facilità ospiti “accoglienti” perché in maggioranza sono bambini o giovani. La pandemia, per l’Africa, potrebbe però diventare disastrosa comunque. In parte perché il Continente, ancora una volta, pagherebbe il prezzo dei guai altrui. E questo, in realtà, sta già accadendo: le esportazioni di materie prime, come pure le importazioni di prodotti lavorati e di generi alimentari, sta subendo un forte rallentamento, dovuto in gran parte alle emergenze del Nord del Mondo. Un secondo forte rischio è la diminuzione degli aiuti internazionali e umanitari, provocato dalle emergenze che vivono i Paesi ricchi e alla crisi economica che si prospetta. Un terzo problema è la probabile riduzione delle rimesse dei migranti, che – ricordiamolo – costituiscono la prima voce di “aiuto” ai Paesi africani, superiore a quella del sostegno internazionale. Anche sotto questo profilo, la crisi pesantissima che si prefigura nelle economie forti sarà pagata pesantemente dalle fasce di popolazione più vulnerabile, fra cui c’è la gran parte dei lavoratori stranieri affluiti in Europa e negli Stati Uniti.

IL PREZZO DA PAGARE

Se anche fosse vero, dunque, che l’Africa sarà colpita in modo molto meno duro dalla pandemia, pagherà un prezzo altissimo, tanto che le previsioni della Banca Mondiale indicano che per la prima volta da 25 anni a questa parte il Continente andrà in recessione, passando da una crescita del 2,4% del 2019, a un calo compreso fra il 2,1 e il 5,1 nel 2020.

Ovviamente, uno scenario ben diverso si prospetta se, pur con una evoluzione più lenta, il virus esploderà comunque con numeri di contagio rilevanti. Per cogliere la dimensione del disastro basti qualche dato: a fronte del 16% della popolazione globale del Pianeta, l’Africa ha l’1% delle risorse dedicate alla sanità. Il continente africano ha in media solo 2 medici ogni 10.000 abitanti (con le dovute differenze tra Paesi), così come ha, secondo l’Oms, 5 posti letto di terapia intensiva, in media, per milione di abitanti.

Sembra che, comunque vada, sia saggio il consiglio dato ai governi del Continente nero dal Direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus: «Il miglior consiglio da dare all’Africa», ha detto, «è quello di prepararsi al peggio e prepararsi sin da oggi». Lo stanno facendo, le leadership africane? Perlopiù sì, per ciò che possono. La maggioranza dei Governi ha emanato provvedimenti di distanziamento sociale e restrittivi alla circolazione delle persone. Spesso però in modo non coordinato. Se il Ruanda e il Sudafrica hanno posto norme abbastanza simili a quelle italiane e la Tunisia ha persino riesumato alcuni robottini su ruote per “stanare” chi viola il lockdown totale decretato (per ora) fino al 15 aprile, in Kenya il presidente Uhuru Kenyatta ha decretato il 6 aprile scorso 21 giorni di chiusura totale della città e dell’hinterland di Nairobi con coprifuoco serale e ristretto il movimento in altre 3 regioni, mentre il Sud Sudan (che ha ad oggi 4 casi e nessuna vittima) ha stabilito sei settimane di coprifuoco notturno e chiusura totale di aeroporti, scuole, moschee e chiese. Il Senegal ha chiuso scuole, università e ha soppresso le manifestazioni religiose, la Nigeria ha messo in rigida quarantena la capitale federale Abuja e la città più popolosa, Lagos, che conta oltre 20 milioni di abitanti. La RD Congo ha vietato assembramenti al di sopra delle 20 persone. In 20 Paesi sono state chiuse le scuole.

INIZIATIVA ETIOPICA

Anche in questa circostanza, il primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali (Premio Nobel per la Pace 2019) ha dimostrato una levatura diversa: oltre ad avviare da subito un tavolo di coordinamento con una decina di altri presidenti africani, si è rivolto al G-20 con un piano in tre punti: la creazione di un fondo globale per l’Africa con 150 miliardi di dollari per fronteggiare l’emergenza, uno specifico pacchetto di interventi sui sistemi medico-sanitari, infine una sostanziale riduzione o ristrutturazione di quel debito estero che appesantisce tanti degli Stati del continente.

Un’ultima annotazione. Le misure decise nei Paesi del Nord del mondo possono essere efficaci in Africa? La risposta, sintetica e puntuale, l’ha data il ginecologo congolese Denis Mukwege (anche lui Premio Nobel, nel 2018): «Temo l’ecatombe», ha detto, «perché non abbiamo i mezzi per combattere il virus e perché gli africani sono costretti a uscire di casa per procurarsi il cibo. Nessun confinamento è dunque possibile, e il Covid-19 si sta diffondendo a velocità da primato». Il “distanziamento sociale” nel Continente è una chimera. Metterlo in atto per la maggioranza degli africani significherebbe fame entro 72 ore.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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