Venti regioni, venti interpretazioni a piacere delle normative stabilite dal Governo con il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’ultima settimana di marzo: le cosiddette “linee guida” vi sono ma, in base alla riforma del 2001 Venezia può allargare le maglie delle misure di contenimento delle restrizioni, Milano può invece fare l’esatto contrario, Genova può concedere ai potenti imprenditori balneari – quelli delle spiagge private che issarono l’”Union Jack” per sfidare la potente Europa sulla direttiva Bolkenstein – di allestire le cabine e le altre strutture per affrontare la “fase 3” della pandemia da Coronavirus.

La fase 3. Così la definiscono i balneari liguri. Peccato che, per disgrazia comune, almeno parrebbe, siamo ancora immersi fino al collo nella fase 1: ossia nel pieno sviluppo di una circolazione del virus di cui ancora i virologi stanno cercando di mappare la “linea di diffusione“, ossia le strade che ha percorso l’infezione da quando è sbarcata in Italia tramite passeggeri di prima classe giunti dall’Estremo Oriente visitato dai Polo a fine ‘200.

Dunque, mentre in Veneto il 25 aprile (mai così tanto interesse ha destato nelle amministrazioni leghiste la Festa della Liberazione dal nazifascismo in Italia!) lo si potrà festeggiare facendo le corsette per strada, le grigliate negli spazi esterni casalinghi (quindi chi ha un giardino può allestire la propria brasserie, chi non ha nemmeno un balcone cui affacciarsi, si accontenterà di vederla cucinata in qualche programma televisivo; per me non sarà un grande sacrificio: evviva il vegetarianesimo anche in questo frangente!), in Lombardia non saranno nemmeno aperte librerie e cartolerie. Tutto chiuso. Ed è una decisione saggia, visto che scendono i numeri di occupazione dei letti in terapia intensiva, ma rimangono alti i dati dei decessi e anche dei contagi.

La serrata totale, senza alcuna eccezione tranne le grandi industrie alimentari e farmaceutiche, era la decisione da prendere e da applicare su tutto il territorio della Repubblica. Senza alcuna deroga in merito. Troppe falle, troppe indecisioni, troppi Decreti del Presidente del Consiglio si sono affastellati, confondendo l’opinione pubblica, provando a farsi largo tra le altre tante ordinanze regionali e comunali che, a loro volta, si sono insinuate e si insinuano serpentinamente strisciando tra le maglie del diritto costituzionale che, purtroppo, consente a queste amministrazioni di affiancarsi alle normative nazionali.

Così si frammenta la coesività nazionale che Giuseppe Conte declamava in una intervista a “Famiglia Cristiana” il 29 marzo scorso. A proposito della sofferenza patita differentemente da determinate zone lombarde rispetto al resto del Paese e all’azione dell’esecutivo, nella piena fase di costruzione del coordinamento della catena di comando in merito, Conte affermava: “Tutte le decisioni in merito alle restrizioni sono state prese seguendo le indicazioni del Comitato tecnico-scientifico che ci ha suggerito di disporre subito l’isolamento sanitario dei Comuni del Lodigiano e di Vo’, all’inizio, quando i focolai erano circoscritti“. Prosegue il Presidente del Consiglio: “Abbiamo sempre dialogato costruttivamente con le varie istituzioni locali (si vedrà col passare del tempo che non sempre è stato così e che le polemiche sono sorte su molti temi: dalle mascherine alle interpretazioni date dal Ministero dell’Interno al DPCM riassuntivo dei precedenti testi). […] Alcune aree del Nord stanno pagando un prezzo davvero molto elevato, ma guai a pensare che questa non sia una emergenza nazionale, una battaglia da combattere tutti insieme, da Nord a Sud“.

Invece è proprio quello che sta accadendo in queste ore, con un effetto di eterno ritorno di una indisciplina che è legale, perfettamente aderente alle normative, che tuttavia può essere impugnata dal Governo e rimessa alla competenza del Tar e poi, semmai, al giudizio della Corte Costituzionale. Sarebbe bene che, prima di arrivare a questi passaggi istituzional-legislativi, che necessitano oltre tutto di un po’ di quel prezioso tempo che sembriamo proprio non avere a disposizione per rimettere insieme una linea di unità d’azione contro il Coronavirus, Roma e gli Enti locali si confrontassero adeguatamente e disponessero una azione comune anche laddove la Costituzione permette a Presidenti di Regione e Sindaci di agire a proprio piacere.

Non è una semplice e banale questione di procedure che discendono dal potere centrale dello Stato ai poteri delle Regioni. E’, come dovrebbe essere evidente, una questione che interessa la percezione dell’unità istituzionale contro un pericolo che, correttamente Conte evidenzia come nemico comune, che deve essere preso in considerazione dall’interezza della popolazione senza distinzione alcuna, ma che poi deve pure trovare nella concretezza delle azioni questo paradigma.

Se i decreti del Governo hanno valore solo fino ad un certo punto, se le Regioni possono implementarli con normative che valutano essere necessarie da territorio a territorio, seguendo qua e là le varie consorterie e lobby padronali di questo o quel settore produttivo; se i Comuni, altresì, tramite disposizioni in materia di protezione civile, hanno questo potere e lo applicano a macchia di leopardo, qui, in questo sovrapporsi e affiancarsi di normative, viene meno l’unità della Repubblica, viene sempre più a mancare proprio la sensazione, anche tenue, flebile, ma pur sempre veritiera che il Paese unito deve affrontare unitariamente questa emergenza.

Ciò che avviene è uno spezzettamento regionalista che nuoce all’Italia come collettività popolare, nazionale, sociale soprattutto, perché il messaggio che ne deriva è: “A casa mia faccio un po’ come mi pare… Va bene, sì, seguo le direttive del governo in materia sanitaria mentre faccio la grigliata nel giardino della mia casa veneta. Seguo le direttive mentre monto le cabine per la fase 3 (sic!) che si aprirà a giugno (gli operatori balneari ne sono convintissimi!)… No, io in Lombardia, esco solo per necessità e sempre e solo con la mascherina!“.

Tante voci, nessuna voce. Il punto non è soltanto di carattere interpretativo delle norme: questa crisi pandemica chiama in causa una revisione della Costituzione che riporti la Repubblica ad avere un suolo di ripristino dell’unità dello Stato, di rimodulazione dei poteri e di un loro nuovo trasferimento a livello centrale per tutto ciò che concerne la tutela della salute pubblica in ogni sua espressione e forma. Quindi in ogni sua esplicita sostanza.

Mi avrebbe fatto molto ridere sentire parlare di “fase 3” da parte degli imprenditori balneari, se non fosse che viviamo in una concitata e drammatica “fase 1“, dalla quale non usciremo certo il 3 maggio, anche se formalmente potrebbe essere così. Perché – lo dicono gli scienziati dell’Istituto Superiore di Sanità nella miriade di dati che stanno studiando – la convivenza col virus sarà lunga; il vaccino non sarà pronto se non nei primi mesi del 2021. Quindi immaginare che si possa andare al mare in spazi rigorosamente separati da distanze di sicurezza, sorvegliando meticolosamente i bambini affinché non abbiano contatti se non con le persone di famiglia, è frustrante tanto per i genitori quanto per i piccoli che vorrebbero poter interagire – e giustamente! – in un ambiente di svago come quello delle pinne, fucili ed occhiali…

Sempre meglio del far stare i ragazzi in casa? Certo che sì. E’ logico, intuitivo, banalissimo da affermare. E’ vero. Ma ce lo possiamo permettere? Ce lo potremo permettere? Mi domando: quali garanzie abbiamo che così facendo il virus non dilaghi nuovamente e non si creino quei focolai che dovranno poi essere isolati… In periodo di piena estate… pensate un po’… Quando il caldo è torrido. Forse sarebbe stato meglio parlare apertamente al Paese e dire: siamo nella “fase 1“, quindi massima allerta per la trasmissione contagiosa del virus. Rimarremo nella “fase 1” ancora per molto”. La “fase 2“, quella essenzialmente dedicata alla riapertura di industrie e attività produttive anche piccole potrà avvenire lentamente, pena altrimenti l’aumento della circolazione dei cittadini nelle strade e la diminuzione del “distanziamento sociale“.  La “fase 3” non immaginatela nemmeno: non è all’ordine del giorno. Ma per Toti e Zaia sembra essere cominciata: uno la chiamerà “ripresa costante“, un altro “necessità economica per la nostra comunità“.

E intanto l’Italia dei padroni di Confindustria, delle piccole patrie egoistiche, corporative e antisociali vince insieme al virus. Che se la ride, in barba agli sforzi che scienziati, medici e sanitari fanno ogni giorno per farci ascoltare numeri di vittime sempre minori, numeri di contagi in declino, numeri di guariti in rapido aumento.

Prima i profitti. Poi la salute. Prima un bagno in mare e poi il tampone anche per chi non è mai stato in spiaggia (il virus circola che è un piacere…). Auguriamoci che non sia così… Ma i presupposti perché accada vi sono tutti.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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