di Francesco Brusa e Gaetano De Monte

Un’indagine promossa dall’Istituto Superiore di Sanità conferma ciò che la stampa sta denunciando da settimane: nelle case di riposo c’è stato un fortissimo incremento del tasso di mortalità e le strutture residenziali sono state incubatrici di nuovi contagi.

Le denunce delle ultime settimane, arrivate tramite inchieste giornalistiche quando non attraverso l’apertura di veri e propri fascicoli della magistratura, trovano finalmente un riscontro nei numeri ufficiali. Dal 24 marzo al 15 aprile l’Istituto Superiore della Sanità, in collaborazione con il Garante nazionale detenuti, ha contattato 3276 Residenze per anziani (Rsa), il 96% del totale delle strutture esistenti sul territorio nazionale, e i risultati di questa indagine sono stati presentati ieri in una conferenza stampa dell’Iss. Il ritratto che ne esce sembra essere quello di una situazione fuori controllo, con le strutture di assistenza per anziani che non hanno fatto altro che aumentare e diffondere i contagi sia tra i pazienti che fra gli operatori.

«È come se gli utenti delle Rsa fossero stati isolati, ma al contrario, è come cioè se fossero stati rinchiusi assieme al virus», ci raccontavano fra la fine di marzo e l’inizio di aprile alcuni operatori sanitari della bergamasca. «Alcune realtà si sono accorte rapidamente della propagazione di Covid-19 e hanno agito di conseguenza arginando il danno, altre sono state magari più fortunate e si sono ritrovate con un basso numero di contagi, ma nella maggior parte il virus ha fatto schizzare la mortalità. Tanti pazienti sono deceduti senza poter avere più contatti umani, stentando magari a riconoscere gli operatori che nel frattempo indossavano gli indumenti di protezione. In generale, le Rsa sono state abbandonate a se stesse».

Infografica dell’indagine Iss Survey nazionale sul Covid-19 nelle strutture residenziali e socio sanitarie

La riprova è forse anche nel basso numero di strutture che hanno deciso di collaborare nell’indagine intrapresa dall’Iss. Tra le Rsa interpellate hanno risposto infatti soltanto in 1082, pari al 33% delle strutture contattate. La percentuale di risposta, però, non è stata univoca da regione a regione. Così, si va dal 12% della Liguria, dove su 112 case per anziani censite hanno risposto in 14, al 40% della Lombardia, dove sono presenti 678 strutture accreditate circa (il 20% del totale di quelle esistenti in Italia), al 10% della Campania, regione in cui su 121 residenze per anziani presenti hanno collaborato con i ricercatori dell’Iss soltanto in 13. È andata meglio, si fa per dire, in Abruzzo, Emilia Romagna, Toscana e Puglia, dove si sono raggiunte percentuali di risposte vicino al 50%.

Le domande miravano a individuare il reale ammontare dei decessi dovuti alla Covid-19, posto che si è ormai da tempo ipotizzato che quelli accertati tramite tampone rappresentino solo una “punta dell’iceberg”: l’Iss ha chiesto chiesto numero dei decessi nel periodo di riferimento, dei pazienti Covid-19 positivi (con conferma da tampone), i residenti ospedalizzati, totali, positivi, e con sintomi simil-influenzali, per ogni regione. La fotografia che ne viene fuori è quella di una strage, con i dati che restano parziali. Si scopre così che, in tutta Italia, il numero totale dei decessi nelle case di cura nel periodo di riferimento analizzato è di oltre seimila persone, precisamente pari a 6773, fino alle 20 del 15 aprile, data a cui risalgono gli ultimi rilievi. Il 50% dei decessi è avvenuto nelle case di cura lombarde, oltre 3000 morti, di cui soltanto 166 morti sono morti ufficialmente a causa del virus (con conferma da tampone). Considerando il dato complessivo sono 364, finora, i morti Covid-19 positivi: il 3,3% del totale dei decessi nell’ultimo mese nelle Rsa.

Grafico dell’indagine Iss Survey nazionale sul Covid-19 nelle strutture residenziali e socio sanitarie

Ma, incrociando i numeri dei pazienti deceduti e dei sintomi loro ascrivibili, sembra configurarsi un dato molto più alto. In questo modo, ad esempio, in Lombardia il totale delle persone decedute a causa di sintomi da Covid-19 sono oltre il 50%, mentre il tasso ufficiale di mortalità da Covid-19 è pari al 6,6%. Va così un po’ per tutte le regioni. In Veneto, per esempio, su oltre 1000 morti nelle case di cura, ufficialmente, soltanto poco più dell’1% sono quelli morti di Covid, mentre se si considerano i sintomi, si arriva al 20%. In Piemonte, su 684 anziani morti ascrivibili e dunque positivi Covid-19 sono soltanto 18. In Emilia Romagna, su 520 decessi totali, sono morte 58 persone a causa del virus, mentre più di 500 mostravano i sintomi.

È il segno evidente che i tamponi sui morti nella maggior parte dei casi non sono stati effettuati. Addirittura sono risultate regioni come la Campania, il Lazio e l’Abruzzo con un solo decesso positivo da Covid-19, a fronte di decine di “ospiti” che hanno perso la vita in quel lasso di tempo con sintomi simil-influenzali. Nell’aggregato, dunque, sono il 40%, quasi tremila, le persone morte in meno di un mese nelle case di cura italiane, comprendendo coloro che avevano i sintomi e quelli a cui è stato fatto il tampone. È l’anatomia di una strage, che assume particolari inquietanti nel periodo compreso tra il 16 e il 31 marzo, entro il quale muoiono, nel periodo più lungo compreso tra l’1 di febbraio e il 15 aprile, il 36% degli anziani deceduti. Una percentuale che nel caso della Lombardia arriva al 43%.

«In tante strutture della zona, la tendenza era quella di avere 40-50 decessi ogni cento pazienti nell’arco di un mese», raccontano sempre gli operatori sanitari della bergamasca. «Una percentuale certamente più alta del normale e quasi certamente dovuta alla diffusione del virus, nonostante ci sia il paradosso di Rsa che con un tasso di mortalità simile non hanno però dichiarato nessun morto da Covid-19, perché impossibilitate a effettuare i tamponi. Ma il problema del contagio si estende ovviamente anche a noi operatori. Capita di avere paura ad andare al lavoro, se non si è adeguatamente protetti o, comunque, si ha poi paura di infettare i propri famigliari. Alcuni di noi si sono volontariamente isolati dai propri conviventi per andare a vivere in appartamenti isolati, assieme ad altri operatori».

Che qualcosa, dunque, non abbia funzionato all’interno delle Rsa italiane, lo stanno ipotizzando in queste ore anche le decine di inchieste aperte in varie procure italiane in seguito agli esposti presentati dai famigliari e dagli avvocati degli anziani deceduti. Quel che è certo è che dal documento “Survey Nazionale sul Covid-19 nelle strutture residenziali e sociosanitarie”, presentato ieri nella conferenza stampa che si è tenuta all’Istituto Superiore della Sanità, sono emerse anche conferme alle numerose criticità all’interno delle case di cura che potrebbero aver favorito il contagio.

Alcuni dati, su tutti: l’82% delle Rsa ha dichiarato di non avere Dpi adeguati, il 25% di aver riscontrato difficoltà nell’isolamento dei pazienti, infine, circa il 50% l’impossibilità di esecuzione dei tamponi. Dati che fanno il paio con il fatto che alla data di ieri sono risultati più di 16000 gli operatori sanitari che si sono ammalati. Tra i quali oltre 11.000 sono quelli impegnati nel contesto assistenziale, più di 8.000 i positivi tra quelli impiegati nell’assistenza ospedaliera e nel servizio del 118, infine che oltre 400 sono, attualmente, gli operatori infettati nelle case di cura per anziani. È la fotografia di una strage tutta italiana. Eppure, sempre nella mattinata di ieri, al Tgr il Presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana dichiarava: «Sulle Rsa credo proprio che non abbiamo sbagliato niente».

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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