Stare a casa non è sempre bello, soprattutto quando si è costrette ad abitare con compagni violenti. L’emergenza coronavirus ha fatto emergere uno dei problemi strutturali di questa società: la violenza machista e patriarcale, che ha le sue radici nella famiglia

C’è chi può stare a casa e dire che andrà tutto bene, chi riesce a inventarsi ogni giorno qualcosa di diverso da fare ed essere comunque sereno – per quanto sia possibile durante una pandemia globale – e chi sta imparando a godersi il tempo in più lontano dalla vita frenetica. Non è così per tutte però. Per molte donne, non andrà tutto bene. Per quelle che sono costrette in casa con conviventi violenti, il coronavirus è l’ultimo dei problemi. Perché devono riuscire a rimanere vive nonostante la reclusione con i propri aguzzini.

Chiamare un centro antiviolenza non è semplice quando si è costrette in casa 24 ore su 24 con un compagno violento. Non lo è neanche riuscire a parlare senza essere ascoltate. C’è poi un problema non secondario: anche se si riuscisse a parlare con un’operatrice, come fare ad andarsene di casa in un periodo in cui è tutto chiuso e bloccato? Nelle prime due settimane segnate dall’emergenza coronavirus, le chiamate ai centri antiviolenza hanno subito un drastico ridimensionamento. Dopo, sono aumentate in modo esponenziale.

Secondo i dati diffusi dai centri antiviolenza della rete D.i.Re, dal 2 marzo al 5 aprile sono state 2.867 le donne che hanno chiesto aiuto alle operatrici. Di queste, 806 non si erano mai rivolte a un Cav prima d’ora. Si tratta di un incremento del 74,5% delle chiamate rispetto alla media mensile. Numeri che devono far riflettere su quanto sta accadendo in questo momento nel nostro paese e su quanto il problema della violenza contro le donne sia stato sottovalutato sia dal Governo sia da Regioni e Comuni.

Basti pensare al numero assolutamente insufficiente di case rifugio in Italia, i cui spazi non riescono a soddisfare le richieste di tutte coloro che vorrebbero andarsene di casa ma non possono. Una situazione gravissima, cui non è mai stata data una risposta. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti: se i reati comuni sono diminuiti durante l’emergenza coronavirus, lo stesso non è accaduto per i crimini legati alla violenza di genere. Maltrattamenti, violenze e femminicidi dominano le prime pagine dei giornali insieme ai bollettini regionali sulle morti per coronavirus.

Il problema è stato sottolineato da Antonella Veltri, presidente di D.i.Re, che ha dichiarato: «oggi, ancora in piena emergenza, siamo nella stessa situazione di 53 giorni fa, quando si è registrato il primo decesso per Covid-19. Nonostante avessimo chiesto risorse straordinarie e le necessarie protezioni per gestire l’accoglienza, i centri antiviolenza e le case rifugio hanno dovuto nella maggior parte dei casi provvedere in autonomia a mettersi in sicurezza e a reperire alloggi di emergenza». E specifica che i 3 milioni annunciati con il Cura Italia «sono irrisori, rispetto ai bisogni dei centri. Non siamo ancora fuori dall’emergenza».

Secondo quanto stabilito dalla Convenzione di Istanbul, firmata anche dall’Italia, ci dovrebbe essere una casa rifugio ogni 10mila abitanti. Roma è lo specchio del valore che la politica e le istituzioni danno al problema della violenza di genere. Nella capitale, con i suoi 3 milioni di abitanti, dovrebbero esserci 300 posti letto per ospitare le donne in uscita da situazioni di violenza. Se ne contano a malapena 25. Altri 14 sono nella casa delle donne occupata Lucha y Siesta, a rischio sgombero da mesi.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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