Anche se si soffre come un cane, non c’è lavoro migliore del giornalismo

Francesco  Cecchini

Nota di Gabriel García Márquez tradotta da Francesco Cecchini per Ancora Fischia il Vento.

Il link con il testo originale è il seguente:

COMMENTO : Gabriel García Márquez ha scritto questo testo oltre 20 anni fa. Ora il giornalismo è nell’ era elettronica, quindi differente da quello di cui parla Gabriel García Márquez. Comunque la Fondazione Gabo fondata allora a Cartagena de Las Indias, Colombia, da García Márquez non solo si è adattata, ma ha contribuito a sviluppare un nuovo giornalismo in armonia con i tempi. Il testo, pur datato, è utile però a capire Gabriel García Márquez, che si considerava più un giornalista che uno scrittore e pensava anche che il giornalismo fosse un genere letterario. Lo può essere anche in tempi di giornalismo elettronico.

IL MIGLIOR LAVORO AL MONDO.

Parole pronunciate dal giornalista e scrittore colombiano Gabriel García Márquez, premio Nobel per la letteratura e presidente della Fondazione Gabriel García Márquez per il Nuovo Giornalismo Iberoamericano, FNPI, prima della  52.ma assemblea della Inter-American Press Association, IAPA, a Los Angeles, Stati Uniti, il 7 ottobre 1996.

Ad una Università colombiana venne chiesto quali sono i test di attitudine e di vocazione che vengono fatti a coloro che vogliono studiare giornalismo e la risposta fu strettamente conclusiva: ” I giornalisti non sono artisti”. Queste riflessioni, al contrario, si basano proprio sulla convinzione che il giornalismo scritto sia un genere letterario. Circa cinquant’ anni fa le scuole di giornalismo non erano di moda. Si imparava nelle redazioni, nelle rotatorie dove si stampavano i giornali, nei caffè di fronte, nelle baldorie del venerdì. L’ intero giornale era una fabbrica che  formava e informava in modo inequivocabile e generava opinioni in un ambiente di partecipazione che manteneva il morale al suo posto. Come giornalisti andavamo sempre  insieme, vivevamo insieme ed eravamo così fanatici del mestiere che non parlavamo di nient’altro se non del mestiere stesso. Il lavoro giornalistico portava con sé un’ amicizia di gruppo che lasciava poco spazio alla vita privata. Non c’ erano comitati di redazione istituzionali, ma alle cinque del pomeriggio, senza una convocazione ufficiale, tutto il personale del giornale si fermava per una pausa dalle tensioni della giornata e si  prendeva un caffè. Era un incontro aperto in cui si discuteva calorosamente degli argomenti di ciascuna sezione e venivano dati gli ultimi ritocchi per l’ edizione del domani. Quelli che non imparavano in queste lezioni ambulanti e appassionate, di ventiquattro ore al giorno, o quelli che erano così annoiati dal parlare sempre dello stesso, era perché volevano o credevano di essere giornalisti, ma in realtà non lo erano. Il giornale era allora suddiviso in tre grandi sezioni principali: notizie di cronaca, reportage e note editoriali. La sezione più delicata e prestigiosa era la redazione. La posizione più svantaggiata era quella del giornalista, quello che era allo stesso tempo apprendista e tuttofare. Il tempo e il lavoro stesso hanno dimostrato che il sistema nervoso del giornalismo in realtà circola in senso contrario. Sono testimone di ciò: all’ età di diciannove anni, essendo il peggior studente di giurisprudenza, ho iniziato la mia carriera come scrittore di note editoriali e mi sono arrampicato a poco a poco e con molto lavoro su per le scale delle diverse sezioni, fino al più alto livello di vero giornalista. La  pratica stessa del lavoro di giornalista richiedeva la necessità di formazionedi base culturale e lo stesso ambiente di lavoro era responsabile della sua formazione. La lettura era una dipendenza del lavoro. Le persone autodidatte di solito sono avide e veloci, e quelle di allora lo eravamo abbastanza per continuare a farci strada nella vita per il miglior lavoro del mondo … come noi  lo chiamavamo. Alberto Lleras Camargo, che è sempre stato giornalista e due volte presidente della Colombia, non era nemmeno diplomato. La successiva  creazione delle scuole di giornalismo fu una reazione scolastica al fatto che la professione mancava di formazione accademico. Ora le scuole non lo sono più solo per la stampa scritta ma per tutti i media, inventati e da inventare. Ma diffondendole si buttò via il semplice nome che la professione aveva fin dalle sue origini nel XV secolo, ora, infatti, non si chiama più giornalismo, ma Scienze della Comunicazione o Comunicazione Sociale. Il risultato, in generale, non è incoraggiante. I ragazzi con la vita davanti che escono abbagliati da queste scuole sembrano sconnessi dalla realtà e dai  problemi reali e un affanno di protagonismo prevale sulle loro vocazioni e capacità congenite. E soprattutto sulle due condizioni più importanti: la creatività e la pratica. La maggior parte dei laureati arriva con flagranti carenze, ha gravi problemi di grammatica e di  ortografia e difficoltà nella comprensione dei testi. Alcuni sono orgogliosi di poter leggere  un documento segreto sulla scrivania di un ministro, registrare dialoghi casuali senza avvertire l’interlocutore o utilizzare una conversazione precedentemente concordata confidenziale come una notizia. La cosa più seria è che questi attentati  etici obbediscono a una nozione spreciudicata della professione, assunta coscientemente e orgogliosamente fondata sulla sacralità dello scoop ad ogni costo e in cima di tutto. Non sono commossi dal fondamento che la migliore notizia non è sempre quella che si da prima, ma spesso è quella che è la migliore. Alcuni, consapevoli delle loro carenze, si sentono delusi dalla scuola e non hanno paura a incolpare i loro insegnanti di non aver instillato in loro le virtù che ora sono loro richieste, e in particolare la curiosità per la vita. È vero che queste critiche sono valide in generale per l’ educazione e sono peggiorate dalla massificazione delle scuole che seguono la linea imperfetta dell’informativa anziché della formazione. Ma nel caso specifico del giornalismo sembra anche che la professione non sia riuscita a evolversi alla stessa velocità dei suoi strumenti e che i giornalisti si siano smarriti nei labirinti di una tecnologia lanciata in modo incontrollato nel futuro. In altre parole, le imprese si  impegnate a fondo nella feroce competizione della modernizzazione materiale e hanno lasciato per un dopo la formazione della loro fanteria e i meccanismi di partecipazione che in passato rafforzavano lo spirito professionale . Le redazioni sono laboratori asettici per navigatori solitari, dove sembra più facile comunicare con i fenomeni siderali che con il cuore dei lettori. La disumanizzazione dilaga. Non è facile capire che lo splendore tecnologico e la vertigine della comunicazione, che tanto desideravamo ai nostri tempi, sono serviti ad anticipare e aggravare l’agonia quotidiana dell’orario di chiusura. I principianti si lamentano che gli editori concedono loro tre ore per un compito che nel momento della verità è impossibile in meno di sei, che gli ordinino materiale per due colonne e al momento della verità assegnino loro solo mezza colonna e che nel il panico della chiusura nessuno abbia il tempo o l’ umore per spiegare il perché, soprattutto per dare loro una parola di conforto. “Non ci sgridano nemmeno”, dice un giornalista principiante desideroso di comunicazione diretta con i suoi capi. Niente: l’ editore che una volta era un papà saggio e compassionevole, ha ora a malapena la forza e il tempo per sopravvivere lui stesso alle galere della tecnologia. Penso che sia stata la fretta e la restrizione dello spazio che hanno ridotto il reportage, che abbiamo sempre considerato come genere stella, ma che è anche quello che richiede più tempo, più ricerca, più riflessione e un’accurata padronanza dell’arte della scrittura. È davvero una vera e propria ricostruzione del fatto. Cioè: la notizia completa di cosa è successo nella realtà, in modo che il lettore lo sappia come se fosse sulla scena. Prima che il telex  o il fax   fossero inventati, un operatore radiofonico con la vocazione di un martire catturava al volo le notizie del mondo tra fischi siderali e un editore accademico le elaborava complete di dettagli e di sfondo, come se un’  intero scheletro di un dinosauro venisse ricostruito da una sola vertebra Era vietata non solo l’interpretazione, perché era un dominio sacro del redattore capo, i cui editoriali erano presumibilmente scritti da lui, anche se non lo erano, e quasi sempre con famose calligrafie a causa del loro intreccio. Storici Redattori  avevano linotipisti personali per decifrarle. Un progresso importante in questo mezzo secolo è che ora l’ articolo e le notizie sono commentati e l’ editoriale è arricchito con dati informativi. Tuttavia, i risultati non sembrano essere i migliori, perché questa professione non è mai stata così pericolosa come adesso. L’ uso scandaloso di virgolette in dichiarazioni false o vere consente incomprensioni innocenti o intenzionali, manipolazioni malevole e false dichiarazioni velenose che fanno della notizia un’arma mortale. Le citazioni da fonti che meritano pieno credito, da persone generalmente ben informate o da alti funzionari che hanno chiesto di non rivelare i loro nomi, o da osservatori che sanno tutto e che nessuno vede, coprono ogni sorta di aggravi impuniti. Ma il colpevole si copre dietro il suo diritto di non rivelare la fonte, senza chiedersi se egli stesso non sia uno strumento facile di quella fonte di cui ha trasmesso le informazioni come voleva e ha disposto come gli pareva. Penso di sì: il cattivo giornalista pensa che la sua fonte sia la sua stessa vita – specialmente se è ufficiale – e per questo motivo la consacra, la acconsente, la protegge e finisce per stabilire con essa un pericoloso rapporto di complicità, che lo conduce anche per sminuire la decenza della seconda fonte. Anche a rischio di essere troppo aneddotico, penso che ci sia un altro grande colpevole in questo dramma: il registratore. Prima di essere inventato, il lavoro veniva svolto bene con tre risorse di lavoro che erano davvero solo una: il taccuino, un’etica infallibile e un paio di orecchie che i giornalisti usavano ancora per ascoltare ciò che stavamo dicendo. hanno detto. La gestione professionale ed etica del registratore resta da inventare. Qualcuno dovrebbe insegnare ai giovani colleghi che la cassetta del registratore non è un sostituto della memoria, ma piuttosto un’evoluzione dell’umile taccuino che è servito così bene alle origini del commercio. Il registratore ascolta ma non ascolta, si ripete – come un pappagallo digitale – ma non pensa, è fedele ma non ha un cuore e, dopo tutto, la sua versione letterale non sarà affidabile come quella di qualcuno che presta attenzione alle parole dal vivo dell’interlocutore, il apprezza la sua intelligenza e li qualifica con la sua morale. Per la radio ha l’enorme vantaggio di letteralità e immediatezza, ma molti intervistatori non ascoltano le risposte perché pensano alla domanda successiva. Il registratore è responsabile del ingrandimento vizioso dell’intervista. La radio e la televisione, per la sua stessa natura, ne fecero il genere supremo, ma anche la stampa scritta sembra condividere l’idea sbagliata secondo cui la voce della verità non è tanto quella del giornalista che ha visto come quella dell’intervistato che ha testimoniato. Per molti redattori di giornali, la trascrizione è la cartina di tornasole: confondono il suono delle parole, inciampano nella semantica, sprofondano nell’ortografia e muoiono di attacco cardiaco per la sintassi. Forse la soluzione è rivolgersi al povero taccuino che il giornalista può modificare con la sua intelligenza mentre ascolta e lasciare al registratore la sua vera categoria di testimone senza valore. In ogni caso, è una consolazione supporre che molte delle trasgressioni etiche, e molte altre che degradano e svergognano il giornalismo di oggi, non sono sempre dovute all’immoralità, ma anche alla mancanza di padronanza professionale. Forse la sventura delle facoltà di Comunicazione Sociale è che insegnano molte cose utili per il mestiere, ma molto poco del mestiere stesso. Certo, devono persistere nei loro programmi umanistici, sebbene meno ambiziosi e perentori, per contribuire alla base culturale che gli studenti non hanno dalle scuole superiori. Ma tutta la formazione deve basarsi su tre pilastri principali: la priorità delle attitudini e delle vocazioni, la certezza che l’indagine non è una specialità del mestiere, ma che tutto il giornalismo deve essere investigativo per definizione e la consapevolezza che l’ etica non è una condizione occasionale, ma deve sempre accompagnare il giornalismo come il ronzio il mosconi. L’obiettivo finale dovrebbe essere il ritorno al sistema primaria di istruzione, con seminari pratici in piccoli gruppi, con un uso critico delle esperienze storiche, e in il suo quadro originale di servizio pubblico. Vale a dire: salvare per imparare lo spirito della riunione alle cinque del pomeriggio. Un gruppo di giornalisti indipendenti sta provando a farlo per tutta l’ America Latina da Cartagena de  Indias, con un sistema di seminari sperimentali e itineranti che porta il nome per nulla modesto della Fondazione per un Nuovo Giornalismo ibero-americano. È un’esperienza pilota con nuovi giornalisti lavorare su una specialità specifica – reportagei, redazione , interviste radiofoniche e televisive e così via – sotto la direzione di un veterano del mestiere. In risposta a un appello pubblico della Fondazione, i candidati sono proposti dal media  in cui lavorano, che sostiene le spese di viaggio, alloggio e iscrizione. Devono avere meno di trent’anni, avere un’esperienza minima di tre anni e dimostrare la loro attitudine e il grado di padronanza della loro specialità con campioni di ciò che considerano le loro opere migliori e peggiori. La durata di ogni seminario dipende dalla disponibilità dell’insegnante ospite, che raramente può durare più di una settimana, e non intende insegnare ai partecipanti con dogmi teorici e pregiudizi accademici, ma incoraggiarli in una tavola rotonda con esercizi pratici, per  trasmettere le loro esperienze nella pratica del mestiere. In quanto lo scopo non è insegnare ad essere giornalisti, ma a migliorare con la pratica quelli che sono già giornalisti. Non ci sono esami o valutazioni finali, non vengono rilasciati diplomi o certificati di alcun tipo: la vita sarà incaricata di decidere chi serve e chi non serve. Trecentoventi giovani giornalisti di undici paesi hanno partecipato a ventisette seminari in appena un anno e mezzo di vita della Fondazione, guidati da veterani di dieci nazionalità.  Alma Guillermoprieto ha iniziato con due seminari di cronaca e reportage. Terry Anderson ne ha diretto un altro sulle informazioni in situazioni pericolose, con la collaborazione di un generale delle forze armate che ha ben indicato i limiti tra eroismo e suicidio. Tomás Eloy Martínez, il nostro complice più fedele e feroce, ha tenuto un seminario di editing e successivamente un altro seminario di giornalismo in tempi di crisi. Phil Bennet lo ha fatto le sue tendenze sulla stampa negli Stati Uniti e Stephen Ferry lo ha fatto sulla fotografia. Il  grande Horacio Verbitsky e il diligente Tim Golden hanno esplorato diverse aree del giornalismo investigativo, e lo spagnolo Miguel Ángel Bastenier ha condotto un seminario di giornalismo internazionale e ha affascinato il suo personale di laboratorio con un’analisi brillante e critica della stampa europea. Uno dei direttori di fronte i redattori ha avuto risultati molto positivi e pensiamo di convocare il prossimo anno un importante scambio di esperienze nelle edizioni domenicali tra editori di tutto il mondo. Io stesso sono stato  tentato di convincere i partecipanti un rapporto magistrale con i germi diafani della poesia può nobilitare la stampa . I benefici ottenuti finora non sono facili da valutare da un punto di vista pedagogico, ma consideriamo come sintomi incoraggianti il ​​crescente entusiasmo dei partecipanti, che sono già un moltiplicatore di non conformità e sovversione creativa all’interno dei loro media, condivisi in molti casi per le loro direzioni. Il semplice fatto di convincere venti giornalisti di diversi paesi a incontrarsi per parlare per cinque giorni del mestiere è già un successo per loro e per il giornalismo. Perché alla fine della giornata non stiamo proponendo un nuovo modo di insegnarlo, ma proviamo a inventare di nuovo il vecchio modo di impararlo.

I media farebbero bene a sostenere questa operazione di recupero. Nelle  redazioni, o con scenari appositamente costruiti, come i simulatori di volo che riproducono  gli incidenti del volo, in modo che gli studenti imparino a gestire i disastri prima di trovarseli di fronte nella realtà. Perché il giornalismo è una passione insaziabile, che può essere digerita e umanizzata solo dal suo duro confronto con la realtà. Nessuno che non l’ abbia sofferto può immaginare questo servizio che si nutre dell’imprevedibilità della vita. Nessuno che non l’ abbia vissuto può nemmeno concepire quale sia il palpito soprannaturale della notizia, l’orgasmo dello scoop, la demolizione morale del fallimento. Nessuno che non sia nato per questo e  sia  disposto a vivere solo per questo, può continuare in una professione così incomprensibile e vorace, il cui lavoro termina dopo ogni notizia, come se fosse per sempre, ma che non concede un momento di pace, infatti ricomincia più ardentemente che mai nel minuto successivo.

ANCHE SE SOFFRI COME UN CANE, NON C’ E’ MESTIERE MIGLIORE DEL GIORNALISMO.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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