Photo dated 1943 of the harbour of the city of Marseille. The city, occupied by the German army from November 1942 until August 1944 during World War II, continued to be an active centre of the French Resistance movement, which partly explains the German decision to dynamite the Panier district and the Old Port in 1943. AFP PHOTO INTERCONTINENTAL (Photo by INTERCONTINENTAL / AFP)

Riceviamo e pubblichiamo

di Franco Astengo

L’ 8 maggio 1945 un emissario tedesco, il generale Jodl, firmava a Reims, presso il quartier generale alleato, la resa della Germania.

Il giorno successivo analogo documento veniva firmato a Berlino, in presenza del maresciallo Zukov.

Finiva così la guerra in Europa: il clima era quello della speranza che chiudeva un’immensa catastrofe.

I responsabili della guerra venivano sommariamente sentenziati, o imprigionati e avviati verso processi come quello di Norimberga.

Si scoprivano le atrocità compiute, specialmente dopo il 1942, nei campi di concentramento nazisti.

Le vie della Germania verso gli altri paesi d’Europa erano percorse da colonne di profughi che tornavano alle loro dimore o, come i Tedeschi il cui territorio era stato ceduto alla Polonia, cercavano una nuova patria; erano percorse anche da reduci laceri, affamati, stremati, che con i più diversi mezzi di fortuna, percorrendo strade che la guerra aveva distrutto, cercavano di ritornare nelle loro case.

L’Europa, quella parte d’Europa dove la guerra era stata combattuta, dove le frontiere avevano segnato i momenti di battaglia, guardava alla pace misurando l’immensità del compito della ricostruzione ma percorsa dall’emozione che la parola pace portava con sé.

Nessuna guerra aveva provocato nella storia conseguenze più vaste e profonde della seconda guerra mondiale.

Esse non furono subito tutte visibili e anzi furono necessari alcuni anni perché si manifestassero appieno, tuttavia in questo caso non è esagerato affermare che nulla dopo il 1945 poteva tornare a essere quel che era stato nel 1939.

Sebbene questa sia soltanto la sede di una modestissima rievocazione storica è necessario, in primo luogo, pensare ancora all’aspetto umano di quella situazione.

Gli effetti materiali e morali della guerra furono enormi: il numero sconvolgente delle vittime, la distruzione di centinaia di città, la devastazione di fabbriche e campagne, la scoperta dei campi di sterminio.

Nessuno avrebbe mai più cancellare dalla propria mente l’idea che l’uomo occidentale, l’uomo che aveva saputo creare la società più raffinata, colta e opulenta della storia fosse stato capace di scendere negli abissi del male, per trovarvi argomenti che dessero una motivazione, se non una spiegazione ragionevole di ciò che era stato compiuto.

Ancor oggi è impossibile dire con certezza quante siano state le vittime della guerra, al di là delle statistiche ufficiali.

Durante la seconda guerra mondiale si ebbero quasi 40 milioni di morti in combattimento, più del doppio delle vittime della prima guerra.

Ha ancora senso, oggi a 75 anni di distanza, soffermarsi nel trascrivere questi dati? Il dubbio può essere legittimo ma per rispondervi è necessario sviluppare due considerazioni:

1) Quando i rapporti tra le nazioni producono una carneficina senza precedenti, ciò significa che le regole di convivenza sono così stravolte da rendere inevitabile un trauma. Crebbe allora in Europa una forza che divenne sempre più cieca poggiando sul senso della paura rispetto a un futuro nel quale gli europei non sarebbero più stati dominatori. Gli Europei si erano lasciati avviluppare dalla paura del comunismo e da quella della loro decadenza dal potere mondiale e finirono con il subire l’egemonia dell’unica potenza che non aveva ancora esaurito la sua capacità di dominio;

2) La seconda guerra mondiale scavò trincee di odio così profonde da far pensare che nessuno sarebbe mai stato capace di colmarle; essa lasciò dietro di sé l’eredità di una esperienza così pesante e così penosa da imprimere nella mente dei sopravvissuti il desiderio di non vedere più il ripetersi di conflitti così vasti, che le armi nucleari avrebbero reso autodistruttivi.

Oggi come allora, in un momento così pericolosamente tragico per le sorti dell’umanità e di fronte al riaccendersi della possibilità di conflitti che potrebbero determinarsi nuovamente a livello globale non possiamo che tornare al pensiero dominante in quel 1945: nessuno allora poteva più pensare alla guerra come a un momento di rigenerazione tra i popoli, o di irrobustimento della coscienza civica e nazionale.

In questo senso appare completamente sbagliata l’idea che un Paese possa ergersi a “gendarme del mondo” e proporsi di esportare “la democrazia” sulla punta della baionette.

Le conseguenze di ciò sono ancora sotto gli occhi di tutti.

Il ricordo dell’ 8 maggio 1945 deve ancora una volta coincidere con l’affermazione di un preciso pensiero: la Guerra è il sinonimo del Male. Senza alcuna giustificazione.

Di AFV

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